Alan AtKisson Alla gente come me – ottimisti professionisti nel campo della sostenibilità – piace mettere in rilievo gli sviluppi positivi. E nei mesi scorsi ci sono stati molti sviluppi positivi da mettere in rilievo, come l’adozione globale dei Sustainable Development Goals o l’accordo di Parigi sul clima. Eppure, a volte, anche gli ottimisti devono svegliarsi e sentire l’aroma del caffè. La metafora non è così positiva come potrebbe sembrare (vado matto per l’aroma del caffè), perché significa che sotto certi aspetti importanti, noi ottimisti viviamo qualche volta in un mondo di sogni. La settimana scorsa mi sono svegliato da un bel sogno sugli accordi globali, notando questo fatto, nudo e crudo: anche se si vedono segni di progresso nel campo della sostenibilità, in termini fisici reali, siamo solo all’inizio nell’affrontare la sfida della trasformazione per la sostenibilità. Questo è particolarmente vero nel mondo delle imprese. Esempio: una nuova articolata ricerca pubblicata sul Journal of Cleaner Production indica con chiarezza che i programmi aziendali per la sostenibilità sono ancora lontanissimi dalla pratica concreta della sostenibilità. Potreste dire, “Sì, ma lo sapevamo già”. Lo sapevo anch’io. Ma i numeri sono spaventosi, anche per me (e sono quasi 30 anni che seguo le tendenze della sostenibilità). La pratica della sostenibilità, anche solo da una prospettiva ambientale, è pietosa. In Danimarca, un gruppo di ricercatori ha analizzato di recente 40.000 rapporti sulla responsabilità aziendale, sulla sostenibilità e sulla CSR, pubblicati a partire dal 2000. (La sola idea di guardare 40.000 rapporti è scioccante.) Gli autori hanno considerato solo le imprese che producono prodotti, escludendo i fornitori di servizi, ad esempio nella finanza e nella vendita al dettaglio. Hanno scoperto che il numero di aziende che fa riferimento ai reali vincoli ambientali era molto piccolo: solo il 5 per cento. Ancora più preoccupante: quel numero, 5 per cento, non è cambiato in modo significativo in un periodo di 15 anni. Certo, è aumentato di molto il numero di imprese che redigono rapporti; ma la quota che fa riferimento ai limiti del nostro ecosistema è rimasta ferma. In base a questo parametro, in media il reporting sulla sostenibilità non è migliorato in quindici anni. Il titolo dell’articolo di Anders Bjørn e soci è una domanda: “La Terra viene riconosciuta come sistema finito nel reporting sulla responsabilità aziendale?” Dopo aver letto 40.000 rapporti, la risposta degli autori è questa: “Non proprio”. Da qui in avanti le cose peggiorano, ma intanto ci vuole qualche dettaglio. Per “vincoli ambientali” si intendono ad esempio il limite concordato di 2 gradi centigradi per l’aumento della temperatura globale dovuto ai gas serra, i limiti delle foreste o dei pesci nel rigenerarsi, e altri punti di non ritorno negli ecosistemi. Gli studiosi hanno anche escluso riferimenti a concetti di lungo termine come “economia circolare” o “dalla culla alla culla“, e hanno concentrato l’attenzione su concreti “disturbi quantificabili” alla natura. Grazie a concetti come Planetary Boundaries, oggi sappiamo molto di questi limiti e disturbi. Purtroppo tale conoscenza non si trova nel reporting sulla sostenibilità aziendale. Parlare di limiti nel rapporto aziendale è una cosa, gestire le attività entro tali limiti è tutt’altra cosa. Provate a indovinare quanti rapporti – dei 40.000 analizzati – hanno utilizzato i vincoli ambientali per stabilire gli obiettivi, gestire le attività, aggiustare il portafoglio prodotti. Aiutino: molto molto meno del 5 per cento. Risposta: 31 rapporti. Ovvero, in termini percentuali, lo 0,08 per cento. Poi gli autori analizzano in modo dettagliato le ragioni dietro un numero così basso. Ad esempio, confrontando i propri dati con i dati CDP – Carbon Disclosure Project – Bjørn e soci hanno trovato che 17 aziende elencate come “impegnate a raggiungere obiettivi di riduzione dei gas serra che limitano il surriscaldamento globale al di sotto dei 2 gradi centigradi” non erano presenti nel proprio database, perché nei loro rapporti non hanno menzionato specificatamente i 2 gradi o “qualsiasi altro limite ecologico relativo al clima”. Gli autori hanno anche esaminato tre case study di imprese che invece si sono impegnate a gestire le attività e i prodotti in base ai vincoli ambientali (in questo caso relativi al clima). Hanno scelto Alstom, Ricoh, e Nissan — due delle tre sono giapponesi, perché nell’elenco di aziende che condividono pubblicamente i vincoli c’è una preponderanza di imprese giapponesi. Neppure queste imprese best-in-class hanno “registrato direttamente progressi verso gli obiettivi basati su vincoli ambientali”. Lo studio costituisce uno spartiacque che potrebbe modificare la nostra visione del mondo, e merita approfondita considerazione da parte di tutti nel settore sostenibilità (ne ho ricordato solo i punti chiave). Nonostante molti anni di sforzi positivi per fare entrare la sostenibilità nell’agenda del corporate management – ormai la sua adozione è sempre più diffusa – questa ricerca indica che il modo in cui mettiamo in pratica la sostenibilità, anche solo da un punto di vista ambientale, lascia tanto a desiderare. Fino a quando il business management non comincerà a prendere in seria considerazione i limiti dei vincoli ambientali del pianeta, e a gestire le proprie attività tenendo conto di tali limiti, i nostri ecosistemi rimarranno in grave rischio. Dopo una rassegna di molte iniziative avviate, comunque, per promuovere un impegno più serio verso tali limiti (come ad esempio la definizione di “obiettivi su base scientifica” o il “One-Planet Thinking”), Bjørn e soci suonano un altro campanello d’allarme. Fanno presente che finora l’eco-efficienza non è riuscita a separare l’impatto ambientale dalla crescita economica. Quindi l’efficienza non basta da sola; ci vogliono cambiamenti più profondi. Per tale ragione, “ci sembra problematico” (concludono con tipica minimizzazione accademica) “il fatto che nessuna recente iniziativa chieda alle imprese di riflettere sul ruolo dei propri prodotti in una trasformazione della società verso la sostenibilità”. Continuo a credere che bisogna festeggiare i recenti successi nel campo della sostenibilità: sono di grandissima importanza e migliaia, se non milioni, di persone hanno lottato per farci arrivare a questo punto. Trasformare i sistemi economici è faticoso, e dovremmo celebrare ogni grande passo verso la vittoria. Ma occorre anche tenere presente questo: il percorso del mondo verso la sostenibilità è solo agli inizi. E la sveglia suona sempre più forte.   Fonte: http://www.greenbiz.com/article/wake-we-still-have-long-long-way-go]]>