Green economy, comunicazione e partecipazione: è intorno a questi temi che ruota l’intervista a Guido Ghisolfi, Amministratore Delegato del Gruppo Mossi&Ghisolfi, seconda azienda chimica in Italia, leader globale nella produzione del PET con sedi in Italia, Usa, Cina, Brasile, Messico e India. Un Gruppo industriale che opera, oltre che nella produzione di polimeri, nei settori dell’ingegneria, della R&S e della chimica sostenibile. Suo il primo impianto industriale al mondo per la produzione di biocarburanti di seconda generazione a Crescentino (VC), entrato in funzione alla fine del 2012, che a regime produrrà 40.000 tonnellate/anno di bio-etanolo e occuperà almeno 100 addetti diretti e 200 indiretti.
Spesso, o meglio quasi sempre, in Italia la comunicazione ambientale è associata a concetti negativi: l’ambiente fa notizia soltanto nel caso di alluvioni, dissesto idrogeologico del territorio, impianti inquinanti e infrastrutture nemiche del paesaggio. Quali sono secondo te le ragioni della mancanza di una “narrativa ambientale” in positivo?
Il problema nasce dalla genesi dell’ambientalismo. La politica ha spesso appaltato i problemi ambientali ad associazioni che hanno come unico scopo la difesa dell’ambiente a qualunque costo, senza alcuna relazione con le condizioni di contorno. Chi deve difendere il territorio non si pone né il problema dell’occupazione né tanto meno quello di una bilanciata alimentazione di 9 miliardi di persone: così diventa ovvio che qualunque cosa abbia un impatto sia visto solo come negativo…
Il vostro Gruppo è leader nella produzione di chimica verde e di biocarburanti. Quanto è importante la comunicazione non tanto dei prodotti ma quanto dei “valori” che le vostre soluzioni trasmettono al mercato del “green” e all’economia del Paese?
Importantissima. Mentre altri tipi di industria devono preoccuparsi solo della economicità della produzione e dell’accettabilità dell’insediamento, nel caso del mondo “green” il prodotto si rivolge ad un sistema di stakeholder molto più ampio e ha la necessità di comunicare non solo che il prodotto è buono ma che risponde a tutti i criteri etici a cui il “green” si rifà.
In Italia i cambiamenti climatici restano un tema scientifico e da addetti ai lavori. Meno distratte rispetto al climate change sembrano le imprese. Per il vostro Gruppo cosa significa fare i conti con i cambiamenti del clima?
Il Climate Change è tema spinoso perché naturalmente impone di fare i conti con un sistema di crescita insostenibile che sembra più conveniente. Dico “sembra” proprio perché è soltanto una percezione. Faccio un esempio: se la CO2 fosse correttamente prezzata, le fonti rinnovabili non sarebbero così care rispetto a quelle fossili ma naturalmente il costo di bruciare petrolio e carbone non è calcolato. Le aziende sono più sensibili perché si rivolgono ad un mercato mondiale e quindi possono vendere le loro soluzioni ai mercati più sensibili. Ma l’Italia non fa mercato…
Come si supera lo scoglio dei tempi di autorizzazione per la realizzazione di nuovi stabilimenti? Quanto può fare in tal senso la politica e quanto la comunicazione al territorio e alle comunità che ospitano gli stabilimenti?
Purtroppo, con la legislazione attuale, semplicemente non si supera. In realtà il problema sta nell’aver spinto così in basso il “permitting” nella catena amministrativa. Un piccolo comune non ha le strutture né le competenze per decidere su investimenti di una qualche entità e non ha nemmeno i mezzi finanziari per procurarsi tali competenze. Allora decide di non decidere e il tempo massimo dei 9 mesi di Conferenza dei Servizi diventa facilmente un iter di 4-6 anni. Non solo: è molto più facile mettere pressione sul sindaco di un comune di 10 mila abitanti che sul Ministro dell’Ambiente. Non esistono soluzioni semplici a problemi complessi ma a mio vedere andrebbe creato un sistema di autorizzazione preventiva all’interno di parametri molto rigidi e con controlli ex-post, arrivando a certificare il diritto di demolizione in caso di violazioni macroscopiche. Ma non mi sembra che si stia andando in quella direzione, anche perché questo toglierebbe il diritto di veto alla politica che non ha nessuna intenzione di abdicare.
Cosa ne pensi degli strumenti di partecipazione e coinvolgimento della popolazione nell’iter di realizzazione di un impianto ad impatto ambientale o di un’opera pubblica? L’ex Ministro Passera aveva disegnato un modello per introdurre il dibattito pubblico alla francese in Italia anche se con qualche differenza. Pensi che questa sia una possibile soluzione per ridurre i conflitti?
Naturalmente il diavolo sta nei dettagli. Chiariamo: non ho nulla in contrario alla partecipazione popolare ad un certo stadio del processo di approvazione. Quello che deve essere chiaro è che un volta ascoltati tutti in tempi certi e assunta una decisione, questa diventa cogente anche per chi non è d’accordo e non esiste più il diritto di interruzione dell’investimento. Nel caso del nostro impianto di bioetanolo le obiezioni della “popolazione” sono state del tenore: “se costruite l’impianto a Tortona io non posso più vedere il Monte Rosa (che si trova 250 km di distanza)”, ”se lavorate 24 ore per 7 giorni mi spaventate le lepri ed i fagiani”, “voglio la filiera corta (70 km) ma non i trattori e i camion”. Allora, se questo è il clima il Paese va a rotoli ma, del resto, a chi fa questo tipo di obiezioni non importa. Nella mia zona i promotori del “No-Bioetanolo” erano gli stessi del “No-Pista Pirelli”, “No- Campari” e adesso” No Tav” e “No Terzo valico”: poco importa se tutti hanno un frigorifero e un’auto… In conclusione, penso che i processi di partecipazione possano ridurre i conflitti nel caso delle grandi opere ma per gli impianti che prevedono un investimento fino a 500 Milioni di Euro queste forme di coinvolgimento sarebbero sicuramente un aggravio inutile.
Dal 2007 ad oggi l’Italia ha perso un milione e mezzo di posti di lavoro. D’altro canto i posti di lavoro nella green economy sono aumentati anche in questi ultimi due anni di crisi nera dell’economia. Eppure in campagna elettorale si è parlato pochissimo di ambiente, sostenibilità e economia verde. Che motivazione ti dai di tutto ciò?
Diciamo la verità: la qualità dei posti di lavoro nella Green Economy non è stata molto alta (naturalmente con qualche nobile eccezione in cui mi ritrovo). Il tema vero è se il costo-Paese per incentivare l’installazione, anziché la ricerca, alla lunga non ci lascia un popolo di installatori a basso costo invece dei “dominus” della green economy. In pratica 40 centesimi di Euro ogni kwh per il fotovoltaico a terra e zero Euro alla ricerca del Triclorosilano ci ha reso clienti dei Cinesi a costi altissimi. Allora, io dico che se proprio si dovevano dare incentivi, sarebbe stato preferibile stanziare grosse cifre da destinare a quei pochi casi di eccellenza che avrebbero potuto spingere il Paese ai primi posti delle tecnologie innovative. Per fare un esempio: 5-10 progetti da 3/400 milioni sull’energia e non 500 progetti da 10 milioni che non servono assolutamente a niente. Ma questo naturalmente non piace a nessuno: Confindustria, Confapi, Confartigianato, Sindacati, PMI, tutti hanno spinto la politica ad una sciagurata azione di incentivi a pioggia che, una volta esauriti, lasciano un deserto tecnologico irrecuperabile. In campagna elettorale non si è parlato di Green Economy perché, in momenti di crisi, nessuno vuole prendersi la responsabilità di beneficiare pochissimi a scapito dei molti.
Il tuo Gruppo industriale è presente con i propri stabilimenti anche in Usa, Cina, Brasile, Messico e India. Quali sono le principali differenze sui temi che abbiamo trattato (cultura ambientale, comunicazione, burocrazia, conflitti e opportunità economiche) tra il nostro Paese e il resto del mondo?
La burocrazia italiana non ha paragoni in nessuno dei Paesi citati. Nelle democrazie evolute come gli USA, è vero che la responsabilità diretta va al sindaco del Comune in cui si fa l’investimento ma è altrettanto vero che il primo cittadino ha anche responsabilità civili per il ritardo. Il sindaco di Corpus Christi, nel Texas, dove facciamo un investimento da più di un miliardo di dollari, ci ha dato il permesso in soli due mesi. Ma questo è stato possibile solo perché la tipologia di impianto rientrava nel manuale a sua disposizione che ci è stato fornito e che abbiamo potuto compilare senza problemi in 10 giorni. Nel caso di Paesi come la Cina la gestione è più centralizzata. E nonostante le procedure di protezione ambientale siano ormai all’avanguardia, devo confessare che la quantità di risorse e l’attenzione maniacale ai tempi di approvazione rende l’investimento molto più veloce e certo. L’assoluta mancanza di chiarezza della legislazione in Italia, al contrario, permette un livello di arbitrio inaudito per una democrazia matura.