Da tempo i pubblicitari hanno abbandonato ogni tentativo di vendere i propri prodotti in base alle prestazioni funzionali: vendono invece sulla base dei sogni, dei miti – parlando dei nostri sentimenti, piuttosto che di fatti.
Nel mito creato dalla pubblicità, infatti, le auto non sono mezzi per spostarsi, lentamente tra mille altre auto, da un negozio, una scuola o da un ufficio all’altro: sono invece espressioni di identità personale che corrono nei passi di montagna deserti, che guizzano in paesaggi urbani cromati alla Bladerunner, che ci inseriscono allegramente al centro di una vita sociale meravigliosamente bella. Il cibo non è una fonte di alimentazione mangiato in bocconi affrettati: è una occasione per una felice vita familiare, o per un lussuoso momento gastronomico o per aiutarci a diventare magri.
Uno dei principali mezzi usati dalle agenzie pubblicitarie e di marketing per sondare le nostre esigenze mitologiche è la ricerca di mercato, in particolare il focus group archetipico. Si riunisce un numero di persone individuate dal mercato come ad esempio “giovani, maschi, professionisti, che vivono in contesti urbani” o “mamme di periferia con poco tempo a disposizione”, e li si espone alla nuova campagna, ai messaggi e alle immagini che si hanno in mente. Si invitano le reazioni, le domande, si misurano le risposte, si cercano altri aspetti del mito che potranno aumentare la possibilità del successo del prodotto. Del tipo: quanto deve essere largo il cielo mentre l’auto vola come un proiettile verso l’orizzonte?
Non ho mai fatto parte di un focus group per parlare di auto, ma ho condotto numerosi altri gruppi e sono del tutto certo che mentre il “giovane, maschio, professionista, che vive in contesti urbani” guardava l’elegante sagoma di design italiano muoversi come il mercurio verso un futuro luccicante, non si è chiesto: “Va bene, ma quanti grammi di CO2 emette per ogni chilometro percorso?”
Eppure ogni pubblicità di automobile ne parla con grande cura: a piè di pagina, con un font tipografico molto piccolo, certo, ma ne parla, poiché la normativa europea lo esige. E dal punto di vista ambientale, è sicuramente una buona cosa. Le auto emettono enorme quantità di CO2; i regulator non perdono un colpo; i produttori di auto sono sotto pressione per produrre macchine più efficienti e sono obbligati a dircelo. Ottimo.
Solo che, per quanto riguarda il consumo sostenibile, la storia praticamente finisce qui. Il consumo sostenibile oggi consiste quasi interamente in una “spinta da parte del fornitore” anziché di un “traino da domanda“. Dalla parte dei fornitori, una combinazione di obblighi normativi e di legge, la peer pressure tra le imprese e, lentamente, una cultura ambientale in via di sviluppo fanno sì che sempre più imprese prendano la questione sostenibilità sul serio.
Se si guarda sul lato consumatore invece, la storia è molto diversa. Il numero di persone che prendono seriamente la questione sostenibilità è rimasto ostinatamente basso in questi 20 anni.
Forse due o tre consumer su 100 cercano attivamente di minimizzare la propria impronta ambientale in modo coerente e trasversale. Per la maggior parte delle persone, invece, è troppo difficile, troppo ingarbugliato, troppo complicato date tutte le altre cose cui devono pensare.
E lo sanno anche i pubblicitari. Quindi – come rivela una recente ricerca di Brook Lyndhurst per il WWF – le catene come Waitrose e Marks & Spencer stanno facendo cose veramente buone, ma non presentano il quadro completo. Raccontano invece piccoli miti ambientali sul “pesce da fonti sostenibili” e sui cibi coltivati localmente. I produttori stessi lavorano con miti che i consumer possano digerire e in particolare lo fanno, come abbiamo scoperto nel nostro lavoro per il Department of Environment, Food and Rural Affairs (Defra) in merito alle percezioni dei consumatori sul benessere degli animali, con polli che fanno atletica e mucche che guadagnano stipendi.
I consumatori non ci capiscono molto: quasi nessuno calcola la propria impronta ambientale, figurarsi quale auto comprare in base a tale impronta, e si preferisce non pensare alle condizioni in cui vivono gli animali che arrivano tagliati e confezionati nei supermercati. I rivenditori e i produttori sanno che se mettessero i consumatori di fronte alle vere implicazioni delle scelte sostenibili, questi scapperebbero via!
E tutto ciò è indice di qualcosa di molto preoccupante. Le imprese prosperano quando producono qualcosa che qualcuno, da qualche parte, vuole. Vuoi sentirti libero, essere un vero individuo? Abbiamo la macchina/prodotto per capelli/scarpe che fanno per te. Guarda, lo dice la pubblicità!
Vendere quello che la gente non vuole è come spingere un masso su una strada in salita: ce la puoi fare se sei forte abbastanza, o se ti frustano abbastanza, ma è un lavoro duro e non ce la potrai fare in eterno.
In ultima analisi, per avere un’economia sostenibile i consumatori la devono volere davvero. E per vendergliela, ci servono dei miti. Vuoi un futuro sostenibile? Guarda: “il tempo per rilassarti con amici e parenti!”, “una vita lunga e sana”, “un lavoro interessante”, “la possibilità di dare un vero contributo!”. Scegli questi e otterrai quello!
Ma che tipi di prodotti e di servizi sono questi? Quali sono i miti che li faranno vendere? E il mondo del “business” riuscirà a capire come fornirli e allo stesso tempo fare contenti gli azionisti?
David Fell
Fonte: The Guardian