MERCATO AZIONARIO E ECONOMIA REALE, SEMPRE PIÙ DISTANTI
Lo studio dell’Università di Pittsburgh e della Ohio State University: l’occupazione è irrilevante per chi opera in Borsa
Nei primi mesi della pandemia le economie mondiali sono sprofondate in recessione, ma i mercati azionari, superata la correzione dello scorso marzo, sono in continuo rialzo. Un esempio su tutti: la scorsa estate gli Stati Uniti hanno registrato il tasso di occupazione più basso dal 1948, ma nello stesso momento gli indici Nasdaq e S&P500 hanno raggiunto i valori più alti di sempre.
Il tema dello scollamento tra mercato azionario ed economia reale è al centro della ricerca di Frederik Schlingemann dell’Università di Pittsburgh e di Rene Stulz della Ohio State University. “Has the Stock Market Become Less Representative of the Economy?”, questo il nome dello studio, analizza i legami tra l’andamento delle capitalizzazioni di Borsa e l’occupazione.
Lo ricerca rileva che, rispetto agli anni Settanta, le imprese quotate in borsa a Wall Street, soprattutto le società con la maggiore capitalizzazione di mercato, contribuiscono sempre meno all’occupazione totale e al Pil.
Uno dei fattori riconducibili a questa distanza progressiva potrebbe essere il graduale passaggio dell’economia statunitense dalla produzione ai servizi. Nel 1973 la produzione impiegava il 30% dei lavoratori. Da allora l’occupazione nel settore è diminuita di oltre 2 milioni di persone. Allo stesso tempo, sempre dall’inizio degli anni ’70, l’occupazione nei settori dell’istruzione, dei servizi sanitari, dei servizi professionali alle imprese, del tempo libero e dell’ospitalità è cresciuta di oltre il 200%.
Un analogo andamento in calo è avvenuto nelle società pubbliche, che hanno visto in calo sia l’occupazione, sia gli investimenti. Questi ultimi, invece, sono cresciuti molto nel settore privato. Dal 2002, il valore patrimoniale netto delle società private è cresciuto due volte più velocemente di quello di quelle pubbliche.
Lo studio sottolinea quanto il fattore occupazionale sia sempre più irrilevante rispetto al capitale. Sono gli asset immateriali a rappresentare i principali strumenti di misurazione della produttività e del valore aggiunto, a discapito del lavoro.
Ma allora viene da chiedersi: quanto poco valore avrà il lavoro, inteso come motore dell’economia, e quanta forza potranno sempre più acquisire le logiche di Borsa e gli strumenti strategici puramente finanziari?
Le operazioni speculative non hanno più alcun legame con l’economia reale ed è forte la sensazione che il mercato finanziario si sviluppi indipendentemente dalla crescita economica reale, dalla produzione di ricchezza diffusa e dall’occupazione.
A ciò si aggiungono – sottolineano gli studiosi – l’ormai cronica mancanza di trasparenza del sistema e la sempre maggiore distanza dei cittadini dalla finanza, delegata sempre più spesso a terzi intermediari.
Colmare questo scollamento, pretendendo trasparenza e facendo scelte consapevoli, è l’unica strada per dare vita al cambiamento e riportare il mondo economico e finanziario dentro binari etici e responsabili.
In questa prospettiva, i documenti che valorizzano la trasparenza come i bilanci di sostenibilità, affiancati o integrati ai bilanci finanziari, possono essere un forte stimolo per un’azione economica che metta al proprio centro le persone e il lavoro.