L’Università si tinge di verde: bene ma la vera sfida comincia adesso
All’orizzonte una nuova generazione di professionisti. Fondamentali saranno l’apertura verso il tessuto imprenditoriale, il coinvolgimento consapevole dell’opinione pubblica e il ruolo attivo dei comunicatori
Agenda 2030, Green New Deal, Next Generation EU, Programma Nazionale di Ripresa e Resilienza stanno dando i loro frutti: stiamo assistendo a un vero e proprio picco di attenzione rispetto ai temi della sostenibilità, ambientale in primis. Anche l’Università imbocca la strada della sostenibilità e adegua la propria offerta formativa, immaginando una nuova generazione di professionisti del green in grado di gestire la transizione ecologica. Benissimo. La vera sfida, però, comincia ora: per far vivere davvero la sostenibilità e diffonderne la cultura dovremo gestire questo processo al meglio. “Accademici, comunicatori, rappresentanti delle imprese unitevi!” dovrebbe recitare un ideale Manifesto!
Università: l’anno accademico 2021-2022 punta sulla sostenibilità
I nuovi corsi sono stati da poco approvati dal Consiglio Universitario Nazionale. Dei 206 proposti, ben 27 new entry nel mondo dell’Università ruotano intorno ad ambiente e sostenibilità. Molti di questi corsi di laurea si strutturano come interdisciplinari e interdipartimentali, perché la sostenibilità è una disciplina ibrida al servizio di tanti settori diversi. E un aspetto di particolare interesse è dato dalla diffusione a macchia di leopardo che va ben al di là dei grandi centri metropolitani. Penso, per esempio, al corso di Chimica Verde sotto la guida del prof. Enrico Boccaleri e al corso di Gestione Ambientale e Sviluppo Sostenibile, coordinato dal prof. Enrico Ferrero, entrambi nell’offerta formativa dell’Università del Piemonte Orientale, che già si era mobilitata in questo senso con la creazione del Centro Interdipartimentale UPO4Sustainability.
Una prima necessità: dialogare con le imprese
Da una parte, quindi, c’è una accelerazione fortissima sul tema della sostenibilità portata dalla mobilitazione a livello normativo, dai finanziamenti, da tutte le opportunità di riconversione e transizione ecologica. Dall’altra parte c’è un tessuto imprenditoriale formato in larghissima parte da piccole e medie imprese che oggi non sono ancora attrezzate per intraprendere un percorso di sostenibilità (ne parlavo pochi giorni fa qui). A oggi, in queste realtà non esistono figure interne che si dedichino alla sostenibilità e guidino l’azienda verso la transizione ecologica.
E qui subentra una prima riflessione – e un primo auspicio – in merito ai nuovi corsi di laurea green e all’attenzione che il mondo accademico sta riservando alla sostenibilità. Perché questi percorsi abbiano un reale impatto sulla transizione ecologica del Paese – e lo abbiano oggi e non in un futuro indeterminato – risulterà essenziale uno stringente collegamento con il mondo dell’impresa, delle fondazioni e delle associazioni di categoria, con una specifica attività di formazione laboratoriale pensata per manager e imprenditori. Se mancheranno questi aspetti, la transizione delle imprese italiane non potrà procedere con l’urgenza necessaria, ma assumerà le dimensioni ingombranti di un mammut, costantemente rallentato dalla propria stazza. E sappiamo bene che fine hanno fatto i mammut nella Preistoria…
E l’opinione pubblica?
C’è poi il vero e proprio convitato di pietra da tenere in considerazione quando si parla dei nuovi corsi di laurea “sostenibili”: l’opinione pubblica, la comunità. Questi corsi di studio sono e saranno importanti non solo perché contribuiranno a forgiare figure professionali esperte di sostenibilità ma perché diventeranno dei veri e propri strumenti di diffusione culturale.
Torniamo al discorso iniziale. L’opinione pubblica non è mai stata attenta come in questo momento storico ai temi della sostenibilità e tutte le ricerche di mercato lo certificano. A questo profondo – e senza dubbio sincero – interesse si abbina un’assai scarsa consapevolezza, spesso accompagnata da una percezione distorta delle problematiche legate alla sostenibilità, soprattutto ambientale.
A riprova di questa situazione, è arrivato uno studio condotto dall’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isac), assieme alle Università di Urbino e Vienna, che ha indagato la percezione che ha l’opinione pubblica di sette paesi europei rispetto alle cause dell’inquinamento atmosferico. I risultati sono estremamente interessanti e significativi: gli intervistati hanno indicato come più inquinanti industria e traffico veicolare e non le filiere di agricoltura e allevamento, maggiori responsabili di emissioni di ammoniaca e, di conseguenza, della gran parte delle cosiddette “polveri sottili” che determinano gli effetti più gravi dell’inquinamento atmosferico sulla salute.
Un vero e proprio travisamento della realtà, legato a un immaginario collettivo che identifica la campagna come luogo “pulito” contrapposto alla città e allo sviluppo urbano.
Evitare una informazione frammentata
Mi perdonerete per la mia ossessione per la comunicazione ma a) è il mio lavoro; b) il sistema informativo ha una grande responsabilità nella creazione di percezioni – distorte o meno – e immaginari comuni. Quando si parla di sostenibilità, spesso i media si concentrano soltanto su alcune partite e dimenticano altri elementi, restituendo ai cittadini un quadro della realtà parziale e frammentato. Anche in questo, la formazione sulla sostenibilità deve entrare sempre più nel merito e abbracciare il settore della comunicazione, diffondendo consapevolezza sulle problematiche del settore. Perché al momento non se ne vede molta.
Sergio Vazzoler