La sindrome NIMBY, quella da indignazione e la comunicazione (ancora) fantasma
Le opere restano al palo, anche quelle necessarie per la transizione ecologica. Non risolveremo questo nodo gordiano senza investire nel dibattito pubblico
Economia circolare in Italia: da una parte il Paese primeggia ma dall’altra scricchiola e il fenomeno NIMBY (Not In My Backyard) ci mette lo zampino.
Se è vero che l’indice di circolarità colloca l’Italia al primo posto in Europa, molti dei rifiuti che potrebbero diventare fonte di energia alternativa ai combustibili fossili finiscono ancora in discarica. E le discariche – facendo una media nazionale e tenendo in considerazione i numeri del Nord, un po’ più ottimisti, e quelli del Sud, decisamente più drammatici – saranno esaurite in tre anni. Ci servono più impianti di trattamento, di recupero energetico e, soprattutto, non spingiamo sul biometano.
Un rapporto dice che…
Un recente studio firmato A2A e The European House – Ambrosetti (Da NIMBY a PIMBY: economia circolare come volano della transizione ecologica e sostenibile del Paese e dei suoi territori) ci dice che nel nostro Paese abbiamo bisogno del 53% in più di termovalorizzatori, cioè almeno di 6/7 impianti nuovi e di trattare almeno il 50% in più dei volumi per il biometano.
Bene, ora che lo sappiamo, non ci resta che metterci all’opera. Realizzare tutti questi impianti, però, non sarà per nulla semplice. Perché? Secondo Jacopo Giliberto de Il Sole 24 Ore (3 settembre 2021, pag. 3) una tra le principali cause è da ricercare nei “sedicenti ecologisti”: non solo qualche sparuto gruppetto di cittadini (un po’) neoluddisti e (molto) contrari alle opere sul territorio in maniera aprioristica ma anche sindaci, amministratori e decisori pubblici.
Una fotografia senza cornice
Oltre il 60% del tempo di realizzazione di un impianto viene “risucchiato” nella fase di autorizzazione. Tante opere, molte delle quali necessarie alla transizione ecologica – anche parchi eolici e fotovoltaici – sono paralizzate dalle opposizioni dei comitati locali.
Si tratta di una fotografia impietosa. Ma, diciamocelo, è una fotografia che è un déjà-vu. Da quando mi occupo di questi temi (ormai sono vent’anni…) ogni anno viene ripetuto l’annuncio di questi dati, seguito da una levata di scudi, che dura il tempo della presentazione della statistica. E poi? Poi non succede nulla.
Allora, la vera domanda dovrebbe essere “Perché non succede nulla“? Perché persino di fronte all’urgenza di accompagnare la transizione ecologica e puntare agli obiettivi per il 2030 non riusciamo almeno a moderare l’opposizione dei comitati? La scorciatoia più semplice è che le persone sono mediamente ignoranti, non conoscono la materia, non sono interessate ad approfondire. Ma questa risposta, come tutte quelle tranchant, è un po’ raffazzonata e arrogante nel suo essere assoluta. È una risposta che non condivido perché mette in luce come oltre alla sindrome da NIMBY ce n’è un’altra: la sindrome da indignazione da NIMBY, ugualmente paralizzante.
Dottore, cosa sta succedendo alla mia opinione pubblica?
C’è qualcosa nei meccanismi della formazione dell’opinione pubblica che non funziona. C’è il venir meno del ruolo che dovrebbero svolgere i corpi intermedi e le associazioni di categoria. Che poi sono le stesse che denunciano questa situazione ma che alla prova dei fatti stentano e ritardano a mettere in campo iniziative per affrontare il fenomeno. Quello che servirebbe, la medicina di cui avremmo bisogno, è una serie di iniziative forti, continuative, rilevanti e diffuse che diffondano cultura su questi temi. Una cultura scientifica (che servirebbe anche per arginare altre distorsioni in atto, basti pensare al fenomeno no-vax).
Questa volta il nodo gordiano va sciolto, non tagliato di netto
La vera sfida, il vero nodo, che ormai è diventato un groviglio come quello di Gordio, è intervenire proprio su questo.
Persino il discorso economico, il risparmio – come una potenziale riduzione in termini di tassa di rifiuti, tornando ai termovalorizzatori – non è in grado di scalfire l’opinione secondo cui certi impianti non s’hanno da fare. Perché è un’opinione che può essere anche contradditoria e incoerente se pronunciata da chi si professa ecologista, ma che probabilmente ha bisogno di altri stimoli e altre leve perché comportamenti e atteggiamenti possano davvero cambiare. E no, per arrivare a questo risultato non possiamo prendere scorciatoie. Questa volta non dobbiamo tagliare il nodo di Gordio – Alessandro Magno, lo sappiamo tutti in cuor nostro, aveva un po’ barato – ma dobbiamo metterci a districarlo con pazienza e costanza.
Non mi guardare, non ti sento: la comunicazione fantasma
Il decisore decide senza intavolare, o quasi, discussione con cittadini e cittadine, i comitati NIMBY “nimbano” e bloccano opere e infrastrutture. E si va avanti così, fino al momento in cui, per bypassare l’ostacolo dell’opposizione territoriale, si arriva alla sanzione, all’obbligo, alla coercizione (una dinamica che ci riporta di nuovo in altri ambiti “caldi”…) che di per sé rappresenta una sconfitta.
La comunicazione è sempre stata vista come una scorciatoia, uno strumento da utilizzare solo quando nasce il problema e quasi mai come leva strategica. È derubricando l’ascolto, il dialogo, l’argomentazione e la facilitazione di temi complessi e divisivi che le situazioni si incancreniscono, arrivando allo scontro, a una conflittualità ancora maggiore, alla polarizzazione. Viste le sfide ambientali che abbiamo davanti, non si può più adottare questa comunicazione fantasma, pallido simulacro che spunta solo una volta che il dibattito ormai si è esacerbato.
La comunicazione va messa al centro della strategia della transizione ecologica. Perché non c’è assolutamente accordo e armonia su come questa transizione debba verificarsi. Lavorare pazientemente, districando i fili, disinnescando possibili esplosioni, è l’unico modo per creare un terreno comune. Che, alla fine dei conti, si rivela sempre fertile.