Il Parlamento frena sugli standard settoriali ESRS: quale futuro per il reporting europeo?
Ritardo fisiologico o incertezza sulla strada della CSRD? Non perdiamo di vista l’obiettivo finale: far crescere nelle imprese europee consapevolezza e impegno sulla sostenibilità.
Il Parlamento Europeo ha deciso di posticipare fino al 2026 l’adozione degli European Sustainability Reporting Standards (ESRS) settoriali. L’accordo intende dare maggior tempo alle società per prepararsi ai maggiori requisiti di rendicontazione e parallelamente allo European Financial Reporting Advisory Group (Efrag) per sviluppare i nuovi standard. Il rinvio prevede anche che i nuovi standard settoriali Esrs settoriali siano resi pubblici non appena pronti.
Questa mossa non può che sollevare interrogativi e dibattiti sulla direzione che sta prendendo il reporting di sostenibilità in Europa. Si tratta di un rallentamento sulla strada della CSRD oppure di una semplice dilazione per rendere più semplice il passaggio al nuovo metodo di rendicontazione? Una cosa è sicura: la decisione riflette la complessità e la sfida nel formulare standard settoriali adeguati che possano garantire dati di alta qualità, comparabilità e rilevanza per la rendicontazione sulla sostenibilità. È possibile, però, che dietro a questa frenata si nasconda anche altro.
Un modello condiviso richiede standard settoriali condivisi
Una riflessione approfondita è dovuta per capire appieno le implicazioni di questa scelta. È stato chiaro fin dal principio che il processo di elaborazione degli standard settoriali ESG sarebbe stato graduale e tortuoso. Allo stesso tempo, nessuno ha mai dubitato che si trattasse di un investimento necessario per garantire la creazione di un quadro normativo robusto, fondato su dati materiali e informazioni comparabili tra loro. E perché questo quadro abbia respiro e senso, gli standard settoriali ESRS, cioè metriche comuni, condivise, a misura di industry, sono fondamentali.
Quali ragioni?
In maniera simile a quanto successo rispetto alla richiesta della Germania di ridurre la platea delle Pmi interessate dalla CSRD, di per sé questa decisione è condivisibile: il processo di cambiamento non è semplice e le organizzazioni vanno accompagnate in questa transizione, accogliendo i legittimi dubbi, le incertezze e le paure che un nuovo modello di reporting può causare. I processi interni cambieranno molto ed è anche giusto ascoltare le richieste di chi si troverà a dover rendere operativo questo cambiamento. Questa decisione però lascia intravedere anche la presenza di forze contrarie alla spinta propulsiva originale della direttiva europea. Inevitabile avere qualche dubbio, perciò, rispetto all’influenza esercitata dalle attività di lobbying di settori economicamente potenti (e spesso a elevato impatto ambientale e sociale).
Da una parte, il Parlamento con la sua decisione vuole sottolineare come senza standard settoriali un’organizzazione non sia in condizione di rendicontare in maniera efficace i propri impatti. Dall’altra parte, la normativa offre alle aziende la possibilità di adottare gli standard del Global Reporting Initiative (GRI) in assenza di ESRS settoriali. Una interoperabilità che permette una rendicontazione più inclusiva e adattabile, mantenendo al contempo l’obiettivo di un impegno trasparente e responsabile verso la sostenibilità. La soluzione per rendicontare con attenzione alle varie industry quindi in realtà ci sarebbe già.
Reporting di sostenibilità: un destino
Le forze centrifughe e dispersive sembra stiano trovando una loro strada in Europa. Sarà l’ultimo colpo di coda? A livello italiano, l’attenzione si sposta ora sul decreto applicativo della legislazione nazionale, con una consultazione in corso che promette di fornire ulteriori indicazioni sul futuro della rendicontazione ESG nel nostro Paese. Vedremo cosa succederà, senza tralasciare i dibattiti e le onde d’urto che le prossime elezioni europee porteranno anche su questo tema.
Non possiamo che augurarci che questi “stop and go” a livello europeo non blocchino quel circolo virtuoso generato dalla scadenza della CSRD. Sicuramente la leva normativa ha dato un giro di vite rispetto all’interesse e all’impegno delle organizzazioni europee in tema di reporting di sostenibilità. Dall’altra parte non dobbiamo mai dimenticarci che, al di là dell’obbligatorietà, i processi di rendicontazione generano a cascata degli impatti positivi fuori e dentro le organizzazioni. Perché permettono di mettere a fuoco i processi interni e la relativa organizzazione, perché rendono possibile uno sguardo d’insieme altrimenti sfuggente, perché ancorano gli obiettivi ESG a quelli industriali e di sviluppo, perché incidono sulla competitività, perché segnano traguardi importanti nella relazione con tutti gli stakeholder.
Un approccio alla sostenibilità ben strutturato e consapevole passa dal reporting. Per quanta opposizione si possa fare tutte le spinte interne ed esterne ci stanno portando lì. Ora più che mai le organizzazioni vanno accompagnate in questa transizione che prima di essere operativa è soprattutto culturale.