Steven Greenhouse
Un consorzio di 70 retailer e brand dell’abbigliamento, per la maggior parte europei, hanno raggiunto un accordo in base al quale entro nove mesi verranno effettuate ispezioni in tutte le fabbriche dei loro fornitori di vestiti del Bangladesh.
Le imprese si sono impegnate ad assumere la responsabilità di intervenire immediatamente ovunque si riscontrassero problemi gravi di sicurezza. Hanno inoltre dichiarato la propria intenzione di “garantire la disponibilità di fondi sufficienti per finanziare eventuali ristrutturazioni e altre misure per migliorare la sicurezza”.
L’ambizioso piano, che è giuridicamente vincolante, viene annunciato a conclusione delle trattative con sindacati e Ong, avviate a metà di maggio. Il primo gruppo di imprese ha aderito all’iniziativa tre settimane dopo la morte di 1.129 operai nel crollo di una fabbrica nel Bangladesh. Da 30, il numero di firmatari è aumentato a 70, con nomi del calibro di H&M, Carrefour, Marks & Spencer e PVH, società madre di Calvin Klein e Tommy Hilfiger.
Poche le imprese statunitensi firmatarie. Alcune hanno affermato che il piano non piace in quanto vincolante giuridicamente, fattore che potrebbe esporle al rischio di cause legali e perché contiene una serie di potenziali obblighi non ben definiti. Riserve che sono considerate esagerate, secondo alcuni retailer e parti sociali europee, che ritengono come la preoccupazione principale degli americani sia data dal costo del piano.
Walmart, Gap, Target e molti altri retailer americani stanno elaborando un piano alternativo con l’aiuto di due ex senatori, George J. Mitchell e Olympia J. Snowe: sperano di annunciarne i dettagli entro metà luglio. Chi è sfavorevole al piano statunitense ritiene che rispetto a quello a prevalenza europea contribuirà molto meno al miglioramento della sicurezza nelle fabbriche del Bangladesh.
Tra le poche aziende americane firmatarie del piano a prevalenza europea vi sono PVH, Abercrombie & Fitch e Sean John. Anche Loblaw, un retailer canadese che produce la gamma di vestiti Joe Fresh, ha aderito.
Il piano – il cosiddetto Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh – prevede che qualora si riscontrasse una minaccia imminente di morte o di incidente gravemente invalidante, il proprietario della fabbrica dovrà sospendere le attività per consentire un’indagine e eventuali ristrutturazioni. Non solo, anche la comunicazione assume un rilievo centrale: i potenziali rischi verranno comunicati ai funzionari del Bangladesh, a tutte le imprese firmatarie e agli operai della fabbrica. E per consentire le ispezioni, i retailer occidentali comunicheranno i nomi e indirizzi di tutti i loro fornitori nel Bangladesh entro il 15 luglio. L’elenco, stimato in quasi 1.000 fabbriche, verrà reso pubblico, come anche i verbali di ispezione; finora, per motivi concorrenziali, le imprese sono state restie a divulgare i nomi dei propri fornitori.
Entro nove mesi, tutte le fabbriche fornitrici nel Bangladesh verranno soggette ad ispezioni per identificare rischi incendiari e di sicurezza dell’edificio, condotte da équipe internazionali di specialisti, i quali daranno la priorità a elementi critici come le uscite di emergenza e eventuali difetti strutturali che potrebbero causare il crollo di un edificio. Qualora si riscontrassero rischi gravi per la sicurezza:
- si definirà un piano di ristrutturazione e riparazione
- si pagheranno i lavoratori nel periodo di chiusura della fabbrica
- si avvierà parallelamente un programma per sensibilizzare i proprietari e gli operai delle fabbriche ai temi della sicurezza.
International Finance Corporation, una divisione della Banca Mondiale, e i governi britannico, danese e olandese hanno offerto il proprio sostegno finanziario per le ristrutturazioni. Secondo Scott Nova del Worker Rights Consortium di Washington, anche i ricchi proprietari delle fabbriche del Bangladesh dovrebbero contribuire al miglioramento della sicurezza. L’onere non va sostenuto esclusivamente dalle imprese occidentali.
Infine: dal momento in cui si evidenziano rischi gravi in una fabbrica, si cercherà di coinvolgere nei lavori di rinnovo anche le imprese non firmatarie che si riforniscono da quella stessa fabbrica.