Raffaello, a Lucca e a Padova avete attivato le iniziative “Finestra sulla crisi” e ”Partecipo e Propongo”. Cosa emerge? Quanto questa lunghissima crisi sta incidendo sui comportamenti delle persone?
La cosa che ci ha colpito di più è il bisogno delle persone di non rimanere da sole ad affrontare le difficoltà. Il bisogno principale è quello di sentirsi insieme, di confrontarsi con qualcuno e confortarsi reciprocamente. Ma al momento sembra che le persone debbano ancora prendere atto dell’irreversibilità del processo. Si pensa ancora che la marea prima o poi si ritiri e che ci sia solo da resistere per un periodo, finché tutto tornerà come prima. Non si è fino in fondo consapevoli che non si tratta solo di cambiare lo stile di consumo, ma che c’è un modello economico e sociale che non sta più in piedi. Questa prospettiva, che si cerca di rimuovere, genera molta ansia.
Ovviamente si affacciano comportamenti nuovi, ma più che altro ci si rende conto che sarebbero necessari comportamenti diversi che non è possibile mettere in atto da soli, perché chiamano in causa le relazioni con gli altri. Non sempre queste relazioni sono disponibili, o sono tali da permettere la ricerca di alternative. Difficile immaginare un modo diverso di produrre, di consumare, di vivere insieme. Qualcuno parla di crisi dell’immaginazione.
E’ vero. E’ difficile immaginare scenari diversi da quelli cui siamo abituati. Da una parte sembra di essere pronti a uno stile di vita più frugale, più attento. Dall’altra, consciamente o inconsciamente, sembra si stia cercando una cornice culturale che renda più digeribile un inarrestabile processo di impoverimento personale. Quale delle due?
Un po’ tutte e due le cose. L’insistenza sul fatto che la crisi sia anche un’opportunità per ripensare una serie di aspetti della nostra vita individuale e sociale, se può essere vera, è anche un modo per trovare un senso alla fatica e a volte alla disperazione. L’aspetto economico della crisi è quello prevalente e l’attenzione alle conseguenze sugli aspetti non economici della crisi – su ciò che significa per le relazioni, il senso del proprio valore delle persone, il benessere psicologico – sono ritenuti marginali. La riduzione delle risorse non necessariamente promuove maggiore solidarietà fra le persone. Anzi potrebbe aumentare la competizione e l’impoverimento non è uniforme. Tutte le analisi ci dicono che le disuguaglianze sociali aumentano. Non possiamo continuare a narrare la crisi come un velo scuro che copre tutti allo stesso modo.
Ci interessano molto le vostre esperienze sul tema della partecipazione e dello sviluppo di comunità. Per esempio, da anni gestite il contratto di quartiere “Mazzini” a Milano e avete avviato i laboratori di ricerca di azione partecipata. Ma c’è davvero una maggiore voglia e disponibilità a partecipare?
E’ difficile dirlo. La nostra impressione è che ci sia un bisogno di partecipazione, ma che diventa domanda di partecipazione solo quando le persone sono toccate nel proprio interesse. Tende a prevalere una partecipazione rivendicativa, difensiva o per prendere. È poco diffusa l’idea di una partecipazione per costruire insieme. Ma il ritrarsi sempre più nel privato e il conseguente disinvestimento su ciò che è comune, anche per evitare conflitti, contribuisce a creare isolamento e solitudine. La partecipazione – come azione che si fa insieme ad altri – sarebbe quindi un modo per riannodare i legami sociali, per ricostruire condivisione fra persone che non hanno più la possibilità di identificarsi in una storia comune.
In questo quadro va anche visto il distacco sempre più siderale tra cittadini e politica, tra cittadini e partiti politici…
I partiti e i politici hanno le loro grandi responsabilità. Ma non credo che si possa attribuire solo a loro la colpa di ciò che stiamo vivendo. Il distacco dalla politica è preoccupante. Come lo è l’atteggiamento sprezzante verso chi fa politica, senza entrare nel merito dei comportamenti dei singoli e dei partiti. La politica, per come è agita e per come è raccontata, non incoraggia la partecipazione. Tutto al più fa venire voglia di partecipazione contro. Eppure fra chi fa politica ci sono persone oneste, che dedicano le loro energie alla cura del bene collettivo. Credo che sia necessario un lavoro per ridare e riconoscere dignità alla politica. Penso che il distacco dalla politica, oltre a essere una conseguenza del comportamento dei partiti e di alcuni politici in particolare, risponda anche a un disegno politico che alcune forze hanno interesse ad alimentare.
E per quanto riguarda la dimensione locale? Tutto adesso è, o vuole essere, a “km 0”. Tu come la vedi? Mica sempre “vicino” vuol dire “giusto e buono”, no?
Ci sono delle ottime intuizioni e dei comportamenti che potremmo definire virtuosi che è utile incentivare. Ma a me pare che alcune parole d’ordine si basino su semplificazioni, inquadrando solo un aspetto del problema. In un mondo globalizzato e interconnesso non credo sia possibile risolvere tutto con il “km 0”. Non solo vicino non vuol dire necessariamente buono e giusto. Può essere inteso anche come chiusura difensiva e poco attenta a ciò che accade lontano da noi.
La dimensione locale, però, è importante perché è lì che può concretizzarsi l’impegno di cambiamento di ciascuno. Lo slogan ‘pensare globalmente e agire localmente’ fornisce secondo me ancora un’indicazione utile anche per affrontare questo difficile momento.
Tu hai quasi sempre operato con le amministrazioni pubbliche. Adesso, che di soldi la cosa pubblica non ne ha e non ne avrà più, si pensa, anzi si spera, che le aziende private prendano coscienza di questa situazione e siano più attive nel campo del sociale, del welfare in particolare. Come la vedi?
Penso che sia finito il tempo in cui le aziende dovevano occuparsi solo di ciò che accadeva ai lavoratori dentro il proprio recinto, rispettando i contratti e le leggi. Le aziende oggi non possono più occuparsi dei lavoratori solo finché sono al lavoro, perché sempre meno sul territorio ci sono servizi adeguati a rispondere ai bisogni che gli stessi hanno come persone, come padri/madri, figli/figlie, come cittadini. Le risorse pubbliche sono sempre più esigue e i servizi si riducono, lasciando le persone e le famiglie, nel frattempo divenute più fragili, senza protezione. Questo comporta che le aziende allarghino il loro sguardo e il loro raggio di azione a ciò che accade sul territorio. E’ un comportamento necessario per mantenere una coerenza con l’idea di Responsabilità Sociale, ma anche per garantire la produttività. Infatti se le persone, quando sono fuori dal lavoro, anziché rigenerarsi sono sottoposte a ulteriore stress, anche la produttività può essere compromessa. Una persona che è al lavoro e che non è tranquilla perché ha lasciato i figli in una situazione non tranquilla, o gli anziani genitori da soli, oltre a essere poco serena, non può certo mettere nel lavoro tutta l’energia che potrebbe mettere se non avesse questi problemi. Insomma, ritengo che sia interesse delle aziende occuparsi della vita del proprio personale anche fuori dal lavoro.