Comunità energetiche, siamo al punto di svolta
La transizione passa anche dai cittadini. I nuovi criteri direttivi della legge nazionale.
Condiviso è meglio. Le comunità energetiche rinnovabili (Cer) sono un soggetto giuridico autonomo (associazione, ente del terzo settore, cooperativa, cooperativa benefit, consorzio, ecc.) basato sulla partecipazione aperta e volontaria tra cittadini, attività commerciali, pubbliche amministrazioni locali o piccole e medie imprese che decidono di unire le proprie forze per dotarsi di uno o più impianti condivisi per la produzione e l’autoconsumo di energia da fonti rinnovabili. Ognuna con le proprie caratteristiche, tutte sono accomunate da un duplice obiettivo: autoprodurre e fornire energia rinnovabile a prezzi accessibili ai propri membri. In Italia al momento le realtà attive sono 39 (report 2022 di Legambiente). Ma, se andiamo a vedere nel nostro passato, scopriamo che questi progetti fanno un po’ parte del nostro DNA: i primi prototipi nel nostro Paese risalgono a fine Ottocento. Come la SEM – Società Elettrica in Morbegno, fondata in Valtellina nel 1897.
Un punto di svolta
Fino allo scorso anno lo sviluppo delle Cer in Italia era inferiore ad altri Paesi europei. Oggi il fenomeno delle comunità energetiche sembra arrivato a un punto di svolta. Un po’ perché, in tempi di crisi energetica e costi alle stelle, diventa stringente mettere in moto nuovi meccanismi per rispondere alle necessità di cittadini, imprese, territori e comunità. Un po’ perché con il recepimento a novembre 2021 della Direttiva rinnovabili dell’Unione Europea dare vita a una comunità energetica oggi appare più fattibile. E infine perché finalmente ci sono le risorse (dal Pnrr sono previsti 2,1 miliardi di euro per le Cer) per farle crescere e sviluppare. Oltre a questi aspetti è importante sottolineare come le comunità energetiche rinnovabili siano pienamente in linea con lo “spirito del tempo”, tra rinnovata attenzione alla sostenibilità ed esplosione di interesse verso i temi ambientali.
Lo sviluppo in Europa
A parte gli esempi ante litteram di fine Ottocento e inizio Novecento (molti anche in Italia), le comunità energetiche hanno iniziato a svilupparsi in Europa dagli anni Settanta. È in questo periodo che in Danimarca vengono installati alcuni impianti eolici da parte di cooperative di cittadini interessati a promuovere le energie rinnovabili. Fenomeno che si diffonde nel decennio successivo anche in Germania e Belgio. Sono proprio i Paesi del Nord Europa ad aver contribuito in maniera decisiva alla diffusione di questo modello. Tra i casi più virtuosi, il Bioenergy Village di Jühnde, in Germania, attivo dal 2004. Una comunità che produce il 70% di calore necessario al proprio fabbisogno e il doppio dell’energia richiesta e in cui il 75% degli abitanti è membro della società cooperativa che possiede l’impianto.
Le previsioni per il futuro
Secondo la guida ENEA alle comunità energetiche, per il 2050 si stima che 264 milioni di cittadini dell’Unione Europea si uniranno al mercato dell’energia come prosumer (termine inglese nato dall’unione dei termini consumer e producer), cioè quei soggetti che al contempo producono, consumano e cedono energia rinnovabile ad altri utenti. Questo potrà portare alla generazione di fino al 45% dell’elettricità rinnovabile complessiva del sistema e darà un contributo significativo al raggiungimento della neutralità climatica.
A livello nazionale, uno studio del Politecnico di Milano (Electricity Market Report) ipotizza che entro il 2025 le energy community italiane saranno circa 40mila e coinvolgeranno circa 1,2 milioni di famiglie, 200mila uffici e 10mila PMI. E secondo una ricerca RSE (Ricerca sul Sistema Energetico) e Luiss Business School tra il recepimento della Direttiva Red II e i finanziamenti del Pnrr al 2030 la potenza complessiva installata in tutta Italia potrebbe arrivare a 7 Gigawatt.
Comunità energetiche, il profilo normativo in Italia
In Italia le comunità energetiche rinnovabili sono state introdotte dall’articolo 42-bis del Decreto Milleproroghe n. 162/2019, che ha anticipato il recepimento completo della Direttiva Europea del 2018 sulla promozione dell’uso di energia da fonti rinnovabili (detta direttiva Red II), attuata in seguito attraverso il D.Lgs. 199/2021 del novembre scorso. Quest’ultima norma introduce alcuni criteri che hanno reso meno stringenti i requisiti precedentemente necessari. Tra questi, i principali sono:
- A livello di potenza, gli impianti di produzione dell’energia elettrica da fonti rinnovabili possono arrivare fino a 1 MW, mentre prima il limite era fissato a 200 kW.
- La comunità energetica ora potrà essere connessa alla cabina primaria, dove l’energia elettrica passa da alta a media tensione, (corrispondente territorialmente a circa 3-4 Comuni oppure 2-3 quartieri di una grande città, circa 20mila famiglie). In precedenza, il requisito comprendeva solo chi era connesso alla cabina secondaria, dove l’energia passa da media a bassa tensione (quella delle nostre case): un’estensione che limitava molto la possibilità di allaccio a una comunità energetica.
- Potranno aderire alla comunità energetica anche impianti a fonti rinnovabili già esistenti alla data di entrata in vigore del D.Lgs. 199/2021, purché in misura non superiore al 30% della potenza complessiva che fa capo alla comunità.
La diffusione nazionale
Nel nostro Paese guidano le Regioni del Nord. Il Veneto ha all’attivo 8 progetti, il Piemonte 7, la Lombardia 6 ed il Trentino-Alto Adige 5 progetti. Ci sono poi Friuli-Venezia Giulia, Emilia Romagna e Abruzzo con due progetti. Infine, una iniziativa per Campania, Lazio, Sicilia, Marche e Toscana. Tutti gli impianti al momento sono di tipo fotovoltaico e hanno una potenza media di 15-20 Kw.
Benefici sociali, ambientali ed economici
Una comunità energetica ha come obiettivo principale quello di fornire benefici ambientali, economici o sociali a livello di comunità ai suoi membri o, più in generale, alle aree locali in cui opera.
Ma quali sono nello specifico questi benefici?
Come ricordato dall’Orange Book pubblicato da Utilitatis, RES e Utilitalia, i vantaggi delle comunità energetiche rinnovabili non si limitano ai benefici ambientali ,a hanno anche una forte valenza sociale: possano dare un contributo importante alla lotta alla povertà energetica, che secondo le stime Oipe riguarda 2,1 milioni di famiglie italiane. L’autoconsumo e il ricorso alle rinnovabili possono porre rimedio alle disparità energetiche presenti sul territorio, andando oltre alle limitazioni dei sussidi statali (burocrazia, costi alti, ecc.).
Ma i benefici a livello sociale non si fermano qui: il paradigma di questo nuovo modello di produzione e consumo è imperniato su comunità e territorio. La condivisione, la collaborazione, il dialogo tra i vari soggetti alla base di queste iniziative rafforzano le relazioni, facendo crescere fiducia e capitale sociale nella comunità e favorendo lo scambio di beni e conoscenze.
Oltre il sociale
E non vanno sottovalutati i benefici ambientali, sia quelli legati alla decarbonizzazione e all’incentivo dell’uso di fonti energia rinnovabili, sia a livello di consumo attraverso un uso più efficiente dell’energia prodotta. “All’interno delle CER – si legge nell’Orange Book ‒ l’energia elettrica viene prodotta da fonti sostenibili, e in particolare attraverso l’uso del fotovoltaico, il quale al netto delle emissioni prodotte per costruire l’impianto non genera CO2. Considerando che in Italia una famiglia tipo consuma circa 2.700 kWh di energia elettrica all’anno, con un impianto fotovoltaico si eviterebbero le emissioni di circa 950 kg CO2 /anno”.
Infine, l’aspetto economico. Tra risparmio in bolletta, guadagno sull’energia prodotta grazie ai meccanismi incentivanti e agevolazioni fiscali come detrazioni o superammortamento, sia i cittadini che le imprese non hanno che da guadagnare da questa scelta. E il Pianeta ringrazia.