Ferpi a cura di Sergio Vazzoler A un paio di settimane dalla ventunesima Conferenza delle Nazioni Unite sul clima di Parigi (COP21), cresce la fiducia verso un accordo stringente e vincolante fortemente auspicato da Papa Francesco al Presidente degli USA, Obama, passando per le grandi corporation e multinazionali che negli ultimi tempi, seppur con qualche autorevole e “pesante” eccezione, stanno fortemente spingendo verso una rinnovata consapevolezza della posta in palio. Tanto da un punto di vista della salute del pianeta quanto e soprattutto per la sostenibilità economica globale. Ciò che, invece, appare tutt’oggi un nodo irrisolto è la scarsa sensibilità sul tema da parte della popolazione mondiale. Nonostante gli immensi sforzi messi in campo in questo ultimo decennio dagli istituti scientifici internazionali (a partire dall’IPCC), la comunicazione del climate change ha sin qui fallito l’obiettivo. Sono stati tanti gli errori commessi in questi anni. Tra questi, in particolare, si segnalano:
- l’ormai nota tendenza della comunicazione scientifica (almeno di una cospicua parte) a parlare una lingua oscura, una sorta di misterioso gergo, straripante di indici, numeri e acronimi comprensibili a pochi, solitamente gli addetti ai lavori già sensibilizzati sul tema. Una strategia, dunque, doppiamente inefficace;
- utilizzare una comunicazione generalista in chiave negativa e allarmistica sulle sorti del pianeta, in quanto lontana dal vissuto di gran parte della popolazione mondiale e quindi inadatta all’obiettivo;
- continuare a battere sul tasto delle immagini degli orsi polari e delle foche in pericolo: lì per lì possono scuotere la sensibilità umana ma non sono in grado di attivare comportamenti diversi o virtuosi e a colmare l’asimmetria informativa circa le soluzioni possibili per evitare uno scenario catastrofico;
- l’approccio retorico secondo cui la lotta ai cambiamenti climatici parte da azioni individuali e domestiche: se è vero, infatti, che gesti e comportamenti individuali sono fondamentali nel “creare una maggiore consapevolezza”, è altrettanto vero che questi non hanno alcun potere d’incidere sull’obiettivo da raggiungere. Non basta nemmeno l’impegno di un singolo Stato a influire se non è condiviso da altri Stati…
- sperare che chi è colpito da fenomeni metereologici estremi quali alluvioni e “bombe d’acqua” colleghi automaticamente l’effetto alla causa del cambiamento climatico. Anche in questo caso, infatti, le persone danneggiate da un evento atmosferico non trovano alcuna corrispondenza nel dibattito pubblico sulle cause globali, ma soltanto una valanga di polemiche sulla mancata o inadeguata gestione dell’emergenza.
- che cosa devono sapere le professioni tecniche per creare infrastrutture low-carbon?
- quali le specializzazioni più richieste dal nuovo mercato “green”?
- quali nuovi strumenti possono essere attivati nel rapporto tra assicurazione e assicurato tanto per prevenire quanto per minimizzare il danno da eventi influenzati dal cambiamento climatico?
- che tipo di strategia attivare per coinvolgere i propri dipendenti da parte delle imprese che hanno scelto di perseguire una strategia in linea con la sostenibilità ambientale? Troppo spesso, infatti, i manager intervengono ai convegni sul tema ma la popolazione aziendale rimane tagliata fuori dal processo di trasformazione. Occorrerà, al contrario, spiegare come le attività del proprio business possono avere un impatto sul clima e viceversa i potenziali effetti del cambiamento climatico sulle imprese. Potrebbero essere utili a tale proposito incontri di confronto tra esperti e dipendenti così come percorsi di formazione per le reti vendita laddove ci siano offerte di prodotti o servizi in grado di ridurre le emissioni dei propri clienti.
- come possono fare esperti e ambientalisti per ottenere informazioni sul cambiamento climatico e formulare progetti di adattamento utili alle istituzioni, spesso a corto di risorse (non solo economiche)?
- che impatto potrà avere il clima che cambia sui programmi della sanità pubblica per gli anziani?