Caspar van Vark Nel 1988, la prima etichetta Fairtrade, Max Havelaar, si applicava a confezioni di caffè vendute nei supermercati olandesi. All’epoca, l’utilizzo di un’etichetta per fornire informazioni sugli standard di una filiera era un passo rivoluzionario, ora invece è prassi quotidiana. Oggi, infatti, l’indice Ecolabel Index elenca 463 certificazioni in 199 paesi. A prima vista, la presenza di certificazioni su tutto, dal pesce al legname, appare un segno di progresso, una promessa di maggiore qualità e trasparenza nel nome della sostenibilità. Ma a che cosa servono veramente le etichette? Offrono benefici ai produttori? I consumatori capiscono cosa sta dietro una certificazione? Questi sono alcuni dei temi di cui si è parlato nel corso di una tavola rotonda ospitata da The Guardian e sostenuta da Mondelēz International. Nei primi tempi, Fairtrade consentiva una differenziazione tra prodotti, offrendo ai consumatori uno strumento per scegliere una filiera più equa e sostenibile rispetto alla norma. Con un numero sempre maggiore di imprese che comprendono la necessità di una filiera più equa, quel ruolo è cambiato. “Oggi la certificazione svolge anche un ruolo di verifica, assieme a vari altri compiti. Si tratta di consolidare la sostenibilità delle filiere adesso che le imprese comprendono meglio i rischi e le sfide”, dice Barbara Crowther, responsabile policy e affari pubblici alla Fairtrade Foundation. Ognuno per sé La spinta a fare la cosa giusta in ogni momento ha portato molte imprese ad avviare progetti per conto proprio. Se da una parte i programmi interni di certificazione aiutano l’impresa ad aumentare la vigilanza e a differenziare i propri brand, dall’altra possono ridurre la trasparenza. “Se l’obiettivo è essere un’impresa sostenibile, la certificazione è un fattore importante, ma lo possono essere anche la collaborazione con partner sul campo e le attività con gli enti di controllo”, sostiene Will Stephens, responsabile approvvigionamento sostenibile a The Body Shop. Storicamente The Body Shop ha perseguito una politica con l’obiettivo di stabilire rapporti diretti di commercio equo con i fornitori, e solo alcuni suoi prodotti portano il logo Fairtrade. Stephens offre come esempio un guanto per lo scrubbing fatto di fibre di cactus, acquistato direttamente da una specifica comunità in Messico. “Non credo che la certificazione sarebbe significativa per questo prodotto, e in ogni caso bisognerebbe rivolgersi a un ente di certificazione specializzato nella pianta di cactus. Allo stesso tempo abbiamo molte altre materie prime in cui sarebbe più necessaria la certificazione”. Grandi imprese attive nel settore dei dolciumi hanno avviato programmi con comunità produttrici di cacao, dimostrando che la certificazione è solo una parte di quello che succede oggi. Vent’anni fa la certificazione del cacao ha rappresentato un passo in avanti per un settore in cui altrimenti non saremmo stati in grado di rintracciare la provenienza delle fave o il porto di esportazione. Oggi, l’industria si rende conto che la certificazione da sola non risolve i problemi di bassa produttività, di infrastrutture inadeguate o l’uso del lavoro minorile, che continuano ad affliggere la filiera. Programmi come Cocoa Life di Mondelēz e il Cocoa Plan di Nestlé lavorano in partnership con organizzazioni sociali per gestire questi temi, assieme alla certificazione. “La certificazione indica l’impiego di pratiche più sostenibili, e questo è un bene, ma noi cerchiamo di misurare l’effettivo impatto sulla produttività, sul reddito o su altri fattori sociali”, dice Jonathan Horrell, responsabile sostenibilità globale a Mondelēz International. La certificazione non risolve la povertà Di recente Mondelez ha annunciato che il 21{f94e4705dd4b92c5eea9efac2f517841c0e94ef186bd3a34efec40b3a1787622} del suo cacao proviene da “fonti sostenibili”, cioè inserite nel programma Cocoa Life o con certificazione. Tale dato – e la necessità stessa di un programma come Cocoa Life – potrebbe sorprendere: forse i consumatori pensavano che anni di certificazioni Fairtrade, Rainforest Alliance, UTZ e altre ancora, avessero fatto di più per stimolare la creazione di comunità produttrici sostenibili. “Contrariamente a quello che possono pensare i consumatori, la certificazione non è uno strumento di sviluppo. Da sola non risolve le questioni”, dice Nicolas Mounard, AD di Farm Africa. Questa è una delle difficoltà che si trovano a gestire le imprese, soprattutto nel settore alimentare: i consumatori si aspettano standard elevati e continui miglioramenti sul campo, ma le filiere sono complesse. La sola certificazione non produce miracoli e un’etichetta non è in grado di comunicare la complessità di quello che si fa e non si fa. “I consumatori le esigono, ma la loro proliferazione non aiuta a orientarsi, dunque risulta difficile capire le singole etichette e i loro significati”, dice Mikkel Andersen, responsabile servizi strategici globali a Sustainia. Qual è la strada da intraprendere per sviluppare filiere più eque? Per raggiungere una maggiore chiarezza sulle certificazioni, può darsi che le imprese debbano agire anche a livello dei prezzi. Nel settore del thè ad esempio, Stuart Singleton-White, responsabile comunicazione esterne a Rainforest Alliance, dice che i segnali che arrivano dai produttori indicano che il cambiamento positivo costa. “Tutti i produttori dicono che il problema principale è che il prezzo che si paga per il thè non è sufficiente a garantire una paga e abitazioni dignitose ai lavoratori”. Anche nei settori non alimentari, vi è spazio per un ruolo più significativo e incisivo delle certificazioni. Nel 2013 il disastro del Rana Plaza in Bangladesh portò alla luce gravi problemi nelle filiere tessili, ma in quel settore la certificazione è di basso profilo. Potrà cambiare qualcosa? “Fairtrade lavora da dieci anni per stabilire uno standard nell’industria tessile e ora questo obiettivo si sta raggiungendo”, dice Clare Lissaman, responsabile prodotti e impatti a Mysource. “Credo però che gli attivisti per le campagne Clean Clothes Campaign e Labour Behind the Label comprendano che non si può pensare che siano i consumatori e neanche le imprese a fare da motore. Servono interventi da parte dei governi assieme alle organizzazioni sociali e alle rappresentanze dei lavoratori. Per quanto Fairtrade abbia raggiunto risultati brillanti nella diffusione di una grande consapevolezza tra i consumatori, ciò non produrrà cambiamenti nel settore dell’abbigliamento”. In questi venti anni, il contributo degli standard di certificazione per una maggiore equità e trasparenza nelle filiere è stato molto importante e oggi, con il lancio nel 2015 dei Sustainable Development Goals – in particolare SDG12, per la produzione e il consumo sostenibile – forse si va verso un dialogo più articolato sulla certificazione e suo ruolo nelle filiere. Come dice la stessa SDG, questo percorso deve coinvolgere “le imprese, i consumatori, i policymakers, i ricercatori, gli scienziati, i commercianti, i media e le agenzie per lo sviluppo”. Fonte: http://www.theguardian.com/sustainable-business/2016/mar/10/fairtrade-labels-certification-rainforest-alliance]]>