di Luca Valpreda

All’inizio degli anni Duemila pesava ancora l’immagine ereditata dal passato di apparato statale, con tanti dipendenti che consideravano la propria società come un’amministrazione, non come un’azienda. Oggi SACE – il gruppo assicurativo-finanziario che accompagna le aziende italiane nell’export – è nella top list delle imprese che attraggono talenti da tutto il mondo, macina utili al ritmo di 400 milioni di euro l’anno e dalla sua possibile privatizzazione lo Stato si attende ricavi stellari, vista l’appetibilità sul mercato. Ma come ha fatto l’azienda a cambiare pelle in maniera così radicale? Gli ingredienti della ricetta vincente sono molti. Uno di questi sta in una grande attenzione ai propri dipendenti. Per capirne di più abbiamo intervistato Paolo Cerino, responsabile comunicazione interna e CSR. Un ruolo dove, a volte, ci si sente molto soli. Ma non in SACE.

 

Tutto è cominciato nel 2004…
Sì. Prima la nostra azienda operava in un mercato protetto, con un prodotto di cui di fatto detenevamo il monopolio. La nostra attenzione era concentrata sui processi, non certo sul mercato e sui clienti. I dipendenti, circa 250, avevano un’età media alta e una scolarizzazione bassa. In quel 2004, con la trasformazione in società per azioni, si è deciso di cambiare tutto, di lanciare una vera e propria sfida per raggiungere un obiettivo ambizioso: trasformare SACE in un’eccellenza finanziaria italiana. Abbiamo aperto sedi in Italia e nel mondo, abbiamo messo sul mercato prodotti e servizi nuovi, in un rapporto sempre più dialettico con le nuove realtà finanziarie e con le banche.

Vi siete dati anche un bel look nuovo con la sede di Roma, no?
La ristrutturazione della nostra sede è stata per noi un simbolo della nuova era di SACE. Abbiamo la fortuna di lavorare in un bellissimo palazzo rinascimentale, in pieno centro. Su un lato della nostra sede si appoggia la Fontana di Trevi! Ma dentro assomiglia più a un loft di Londra o di Francoforte: pareti di cristallo, open spaces, ambienti aperti, luminosi e trasparenti.
Però il motore vero di tutto il cambiamento è stato un forte investimento sulle risorse umane.  La scelta è stata quella di selezionare e assumere persone molto capaci, provenienti dalle migliori Università italiane ed estere, con dei percorsi di specializzazione importanti, con una perfetta conoscenza dell’inglese, con una forte predisposizione al cambiamento. I risultati si vedono nei numeri di oggi: siamo oltre 700 persone, il 65{f94e4705dd4b92c5eea9efac2f517841c0e94ef186bd3a34efec40b3a1787622} laureato, il 53{f94e4705dd4b92c5eea9efac2f517841c0e94ef186bd3a34efec40b3a1787622} donne (e una su tre ricopre ruoli manageriali). Siamo diventati un’azienda giovane: il 69{f94e4705dd4b92c5eea9efac2f517841c0e94ef186bd3a34efec40b3a1787622} ha meno di 45 anni, e 32 dei 39 nuovi colleghi assunti nel 2013 hanno meno di 36 anni.

Ma questo cambiamento generazionale ha comportato resistenze, conflitti?
Devo dire con serenità di no. Da subito abbiamo curato moltissimo gli aspetti formativi (nel 2013 ogni persona in SACE ha usufruito in media di 25 ore di formazione, ndr), con diversi interventi di tipo motivazionale, di team building, e con grande attenzione alle competenze di tipo gestionale. No, non ci sono stati problemi nella gestione della popolazione senior dell’azienda rispetto a quella giovane. Io stesso sono un esempio dell’avvenuta integrazione: sono entrato nel 1996, ho svolto diversi ruoli e credo di rappresentare un “ponte” tra la vecchia e la nuova SACE.
Certo, tutto si è svolto in un ambiente con fondamentali solidi, come un ottimo contratto, livelli retributivi attraenti e una politica attenta nei confronti del personale, con numerose iniziative di corretto bilanciamento tra vita lavorativa e vita personale, il cosiddetto work life balance.

Questo ci interessa molto! Come siete partiti?
Siamo sempre partiti dall’analisi del bisogno. Faccio un esempio. Uno degli interventi di welfare aziendale generalmente più popolare nelle aziende, e forse anche più richiesto, è la creazione di un asilo aziendale. Anche noi pensavamo che fosse l’iniziativa da cui partire, visto che molti colleghi avevano bimbi piccoli. Verificando sul campo, invece, abbiamo rilevato che il gradimento non era così alto e i risultati attesi non avrebbero giustificato lo sforzo che avremmo dovuto compiere per avviare questa attività. Molto più gettonata è stata invece l’idea della palestra. E così abbiamo fatto: abbiamo realizzato e aperto una palestra nella nostra sede di Roma, corredata di tutte le attrezzature più moderne.

Come funziona la vostra palestra?
E’ a disposizione dei dipendenti e c’è sempre un trainer presente. E’ aperta la mattina, dalle 7,45 alle 9,15, in pausa pranzo e la sera, dalle 16,30 alle 21. E’ un elemento di attrazione immediato e i colleghi neoassunti sono sempre tra i frequentatori più assidui. E’ un’attrazione anche per chi ci guarda dall’esterno: senza averla mai pubblicizzata, la Rai è venuta a sapere della “palestra aziendale ultramoderna alle spalle della Fontana di Trevi” e il TG2 ha realizzato un servizio molto positivo. Però la palestra è solo un elemento, un anello della tante iniziative che abbiamo messo in atto.

Qual è il vostro approccio complessivo?
Per noi work life balance significa un modo diverso di affrontare il rapporto con le persone. Abbiamo creato, all’interno della struttura che guido, una funzione che definiamo “happy manager” che si occupa di valutare quali siano i reali bisogni delle persone, cercando di dare risposte che non siano individuali, ma organizzative.
Per esempio, in una città come Roma sono enormi i problemi di mobilità. In questa direzione siamo intervenuti, garantendo contributi per gli abbonamenti al trasporto pubblico locale, offrendo servizi in tempo reale sul traffico e sui tempi di attesa degli autobus, aprendo posteggi per le biciclette, creando un sistema aziendale di bike sharing: i nostri colleghi possono arrivare in sede con mezzi propri e poi, da qui, usufruire del nostro parco biciclette per i loro spostamenti. Certo, abbiamo anche orari flessibili e siamo molto aperti rispetto al telelavoro. E’ un processo vasto e integrato quello che abbiamo messo in atto e ogni singola iniziativa va considerata come una tessera di un mosaico complessivo.

E nel settore della salute?
Qui il nostro obiettivo principale è quello di sgravare le famiglie dagli aspetti economici legati alla salute, tramite l’attivazione di polizze molto efficaci. E poi prevediamo interventi mirati, come check up biennali per gli over 45, convenzioni con servizi di cura della persona per chi ha bimbi piccoli da accudire o anziani da assistere, e anche corsi di formazione. Contrariamente alle nostre previsioni, per esempio, ha riscosso un gran successo il corso, organizzato in collaborazione con la Croce Rossa, sulle manovre di disostruzione pediatrica delle vie aeree. Pensavamo fosse un corso di nicchia, con pochi interessati, e invece abbiamo dovuto ripeterlo cinque volte. Ma ci spostiamo ancora più avanti. Vuole un’anteprima?

Certamente…
Ci siamo resi conto che c’è bisogno, per alcuni colleghi che hanno esternato questa necessità, di un aiuto per capire quali siano i meccanismi della motivazione, della reattività, di tutto quello che riguarda la sfera della mente individuale. Quindi già da prima dell’estate offriremo dei percorsi di counseling psicologico che affronteranno tematiche generali: i disturbi alimentari, la gestione dell’ansia, la dissuasione dal tabagismo, le preoccupazioni circa i rapporti personali e famigliari. E poi, per chi volesse approfondire, ci sarà la possibilità di intraprendere percorsi individuali da frequentare in centri convenzionati.

Sono tutte iniziative che offrite ai vostri colleghi in modalità gratuita?
No. I servizi che noi offriamo non sono mai regalati ai colleghi. Sono a pagamento, ovviamente a condizioni economiche vantaggiose rispetto al mercato, sfruttando la capacità organizzativa e le economie di scala che una struttura come SACE può assicurare.

Sul fronte della CSR, SACE si confronta con altre realtà?
Siamo talmente legati a questa tematica che due anni fa abbiamo condotto un’indagine coinvolgendo le oltre 100 aziende che fanno parte del CSR Manager Network.  Abbiamo scoperto che ci sono molte realtà interessate ad approfondire questi argomenti.  Anche perché, purtroppo, le aziende italiane sono chiamate a contribuire al welfare pubblico come le aziende scandinave, cioè pagando moltissimo in termini di contributi, e ottenendo in cambio dallo Stato servizi scadenti, se non addirittura nulli. Che cosa devono fare le aziende? Le più attente, anche a rischio di intaccare la loro capacità di essere competitive, si fanno carico di tutta una serie di servizi di cui il dipendente ha veramente bisogno e che lo Stato non è più in grado di garantire.

Vi sentite soli di fronti a questa responsabilità?
In SACE sicuramente no, ma in genere la figura del CSR è afflitta da un senso di solitudine, che definirei “doppia”. Soli di fronte all’apparato pubblico, che abbandona il datore di lavoro di fronte ai bisogni dei lavoratori, dalla mensa alla salute, dagli asili alla mobilità. Soli di fronte ai capi azienda, che spesso non capiscono e non approvano investimenti il cui ritorno non è certamente a breve. Io sono fortunato, perché il nostro amministratore delegato ha una formazione anglosassone e ha sviluppato attenzione verso questi temi. Ma lei provi a immaginare cosa succede di norma quando uno che fa il mio mestiere va dal suo capo azienda a presentare iniziative di welfare aziendale. Quanti riescono a vederli per quello che sono, ovvero investimenti che hanno un ritorno nel medio e lungo periodo?

Pochi. Ma sono di più se questi investimenti si possono misurare.
Si devono misurare. Noi facciamo analisi di interesse, analisi di clima, analisi di gradimento e, devo dire, troviamo sempre risposte molto, molto positive. Facciamo anche periodiche verifiche oggettive, per esempio sul turnover, che in SACE è molto basso, sulla riduzione del tasso di assenteismo, sulla capacità di attrarre talenti, anche dall’estero. Sono tutti parametri che ci dicono se stiamo facendo un lavoro utile o meno.

Parlava di solitudine e di distanza. Anche nei confronti della scuola?
Sì, un altro tasto dolente. Sappiamo che c’è una grande distanza tra il mondo della formazione e il mondo del lavoro. I ragazzi escono dalla scuola, anche con una laurea magistrale, incapaci di capire le logiche più elementari del lavoro. A loro spesso manca tutto: codici di comportamento, codici di linguaggio, attitudine all’interazione, capacità di affrontare e risolvere un problema.
Per cercare di colmare questo gap, da quattro anni organizziamo in azienda l’iniziativa “Spiga”, rivolta ai giovani dai 18 ai 26 anni, parenti dei nostri dipendenti. A loro presentiamo il mondo e l’organizzazione aziendale, anche attraverso sessioni di role playing. Poi simuliamo una vera giornata di lavoro: l’elaborazione di un progetto, la creazione di un prodotto, l’assunzione di una persona, l’elaborazione di una campagna pubblicitaria. L’operato dei ragazzi viene presentato ai responsabili aziendali della specifica funzione coinvolta, che esprime un giudizio aziendale su quanto svolto, con l’evidenziazione dei punti di forza e di debolezza del loro operato. Un’altra iniziativa che riscuote un grande interesse.

Ma ci sarà stato anche qualche insuccesso, no?
Certo. Per esempio, avevamo valutato utile offrire direttamente dall’ufficio dei servizi – la spesa, la lavanderia, l’artigiano per le piccole riparazioni – che potevano alleviare i disagi della vita quotidiana. Non ha avuto successo. Abbiamo compreso che in una città come Roma e in una sede come la nostra (in pieno centro e in zona a traffico limitato) le persone preferiscono avvalersi dei servizi vicino a casa e non di quelli vicino al lavoro. Abbiamo deciso di interrompere questa esperienza perché non aveva un ritorno accettabile.

Fate davvero molto sul fronte del welfare aziendale. Però mi sembra che non comunichiate i risultati raggiunti all’esterno. E’ così?
E’ vero, ma non è una dimenticanza. E’ una scelta precisa. Noi pensiamo che queste iniziative si fanno e non si dicono. Pensi che siamo arrivati al sesto anno in cui realizziamo il nostro report di sostenibilità e l’edizione di quest’anno sarà la prima che avrà una visibilità all’esterno. Lo so che altre realtà fanno esattamente l’opposto. Noi preferiamo fare.

Poca comunicazione esterna su queste iniziative, ho capito. Certo che le tenete ben nascoste! Ma sul fronte interno?
E no, su questo fronte siamo invece attivissimi. Con la comunicazione interna intendiamo raggiungere due obiettivi. Da una parte migliorare l’engagement del personale rispetto ai valori aziendali, dall’altro ricordare il valore fondamentale della vicinanza al cliente.
L’attività di comunicazione interna è massiccia. I colleghi sono letteralmente bombardati da una serie di iniziative. In questo momento siamo impegnati nel focalizzare l’attenzione sui nostri valori aziendali con campagne bimestrali, ciascuna dedicata a un singolo valore. Lo stiamo facendo con una serie di poster dedicati, distribuiti in contemporanea in tutte le nostre sedi in Italia e all’estero, con video “emozionali”, con una serie di progetti – convegni, discussioni, corsi di formazione, presentazioni di libri – che accompagnano e ricordano l’importanza del singolo valore.
Siamo anche impegnati sul fronte della comunicazione organizzativa. Qui il nostro proposito è quello di mettere in grado anche il middle management di dialogare sui contenuti di informazione aziendale e non solo sui processi di lavoro. Vorremmo che questi manager intermedi, tra l’altro molto credibili all’interno dell’organizzazione per il ruolo che ricoprono, diventino anelli attivi della trasmissione delle informazioni all’interno di SACE.
Molta attenzione poi la poniamo alla comunicazione interna di accompagnamento del business. Due volte alla settimana pubblichiamo “What’s up in SACE”, un aggregatore di notizie con focalizzazione sui mercati in cui operiamo e sulla vita aziendale. A questo si aggiunge un canale video interno che utilizziamo proponendo prodotti diversi: innanzitutto il Tweet TG, il nostro telegiornale interno, che dura massimo 180 secondi (i testi delle notizie non devono superare i 140 caratteri). I nostri “Tweet TG” sono quindicinali, escono il martedì all’ora di pranzo e sono annunciati da un alert. Altro prodotto è la video-intervista: tutti i colleghi, a turno per struttura o per professione, sono chiamati a raccontarsi, in modo informale, per accrescere la conoscenza e la vicinanza reciproca.

E’ stato un successo?
Eccome, soprattutto perché è un modo per rivedere i propri colleghi raccontare le attività di SACE sotto una luce completamente diversa. Di recente ha avuto molto successo la presentazione video dei dirigenti di nuova nomina, che si solo lasciati intervistare in chiave anche ironica.

Come diceva Gigi Marzullo: cosa c’è dietro l’angolo?
Come si legge sui giornali stiamo vivendo una fase di incertezza circa l’assetto della nostra società, che potrà essere privatizzata. Intendiamo accompagnare questo momento con la massima tempestività e trasparenza. Vogliamo fare in modo che tutti i nostri colleghi vengano a sapere cosa succede dall’azienda e non dai giornali. E ci stiamo riuscendo, anche grazie alla forte sensibilità dei nostri colleghi chi si occupano delle relazioni esterne.  Abbiamo recentemente condotto un’indagine sulla comunicazione interna che ha coinvolto tutto il management aziendale. Sa cosa è emerso? Non più disquisizioni sugli strumenti, come accadeva in passato, ma grande focalizzazione sui contenuti. La domanda maggiore è stata quella di avere sempre più informazioni, della migliore qualità possibile. Per noi questa richiesta si traduce in quattro elementi: tempestività, trasparenza, chiarezza, autorevolezza, con i “capi” che si spendono in prima persona.