Bill McKibben

A questo punto gli scienziati che dirigono l’Intergovernmental Panel on Climate Change sentiranno che è giunta l’ora di rinunciare a tutti i loro satelliti, termometri e spettometri finemente calibrati, ai loro modelli computerizzati, in cambio di un dizionario di sinonimi. Da qualche parte, sicuramente ci devono essere parole che convinceranno i leader mondiali ad agire.

In questi giorni, con la pubblicazione del nuovo rapporto sintetico, l’IPCC è ricorso a parole quali “severi, diffusi e irreversibili” per descrivere gli effetti del cambiamento climatico: parole che in bocca agli scienziati, conservatori di natura, suonano come un’apocalisse in grado di fare più danni dell’Ebola. E’ difficile immaginare come si potrebbe rafforzare ancora di più il linguaggio per il prossimo congresso a Parigi.
Eppure, è quasi certo che il nuovo documento – una sintesi di tre rapporti emessi quest’anno da tre grandi gruppi di lavoro – sottovaluta la severità della situazione. Come ha osservato il Washington Post qualche giorno fa, i rapporti precedenti hanno sempre cercato di abbassare i toni; in particolare questo è vero per il problema dell’innalzamento del livello del mare, dato che il nuovo documento IPCC non fa neanche riferimento al fatto che le grandi calotte di ghiaccio dell’Antartide hanno iniziato a sciogliersi: un fenomeno osservato a maggio, i cui studi sono stati pubblicati dopo l’ultima data utile per preparare il materiale IPCC.

Ma in fondo, a chi importa? Gli scienziati hanno fatto il loro lavoro; nessuna persona dotata di buon senso, neppure i candidati repubblicani al Senato americano, possono credere veramente che non vi è un problema. Il metodo scientifico ha vinto: nel corso di 25 anni, i ricercatori hanno raggiunto un rimarchevole consenso su un problema fondamentale, chimico e fisico. Anche gli ingegneri sono stati bravi. Il prezzo di un pannello solare si è ridotto di oltre il 90{f94e4705dd4b92c5eea9efac2f517841c0e94ef186bd3a34efec40b3a1787622} negli ultimi 25 anni, e continua a scendere. Nei pochi posti dove i pannelli sono utilizzati su larga scala, i risultati sono sorprendenti: quest’estate ci sono stati giorni in cui la Germania ha ricavato il 75{f94e4705dd4b92c5eea9efac2f517841c0e94ef186bd3a34efec40b3a1787622} dell’energia dal vento e dal sole.

Certo, non perché la Germania abbia un’abbondanza di luce solare (sono poche le persone che si prenotano una vacanza sulla costa del Mare del Nord). Ma perché i tedeschi sono riusciti a generare una quantità impressionante di buona volontà, e ne hanno fatto buon uso.

Nel resto del mondo, invece, l’industria dei carburanti fossili ha creato grande paura nella classe politica, e ha ostacolato il cambiamento. Le montagne di soldi hanno finora pesato di più delle montagne di dati accumulate dagli scienziati. L’IPCC, infatti, è in grado di calcolare le dimensioni della differenza con grande precisione. A loro avviso, per intraprendere la strada giusta, da adesso fino al 2029, il mondo dovrebbe attuare tagli annui degli investimenti nei carburanti fossili, e utilizzare i soldi risparmiati per accelerare lo sviluppo nel campo delle rinnovabili.

E’ un compito difficile, ma non impossibile. Anzi, il movimento popolare espresso dall’ingente marcia per il clima organizzata a New York a settembre ha cominciato a generare un impatto in termini di dollari. Secondo un rapporto pubblicato questa settimana, i manifestanti che stanno ritardando i lavori sul pipeline Keystone in nord America hanno impedito nuovi investimenti pari a un valore di almeno 17 miliardi di USD nelle sabbie bituminose del Canada – investimenti che avrebbero prodotto emissioni di CO2 equivalenti a quelle di 735 centrali a carbone. Mica male.

Chiaro, i nostri leader politici potrebbero fare molto di più. Se applicassero un prezzo serio alle emissioni di CO2, usciremmo velocemente dall’era dei carburanti fossili per muoverci verso un futuro di rinnovabili. Ma ciò non succederà fino a quando non sconfiggeremo il potere dell’industria dei carburanti fossili. E’ quindi un’ottima cosa che chi fa campagna per il divestment stia vincendo una serie di battaglie in diversi continenti, con le università da Stanford a Sydney a Glasgow che iniziano a vendere i loro titoli di carburanti fossili: persino il fondo Rockefeller Brothers, erede del più grande patrimonio petrolifero di tutti i tempi, si è unito alla battaglia.

Non sarà facile contrastare il potere dell’industria dei carburanti fossili, anche perché va fatto velocemente. Va fatto prima che il CO2 che abbiamo emesso ci distrugga il pianeta. Non sono certo che vinceremo – ma grazie all’IPCC nessuno potrà dire di non essere stato avvisato.

 

Fonte: http://www.theguardian.com/environment/2014/nov/02/ipcc-climate-change-carbon-emissions-underestimates-situation-fossil-fuels