Greenbickering, i contenziosi legali tra competitor aumenteranno?
Il fenomeno è strettamente legato al greenwashing: in Europa le comunicazioni di sostenibilità ambientale delle aziende sono ingannevoli nel 42% dei casi.
Viviamo in un’epoca di neologismi. Dopo il greenhushing (il silenzio verde di chi non vuole far conoscere i propri progressi ambientali), arriva anche il greenbickering. Il termine unisce le parole green (verde) e bickering (litigio, battibecco) in un nuovo concetto ben poco rassicurante. Il greenbickering si realizza quando un’azienda si attiva in ambito legale contro un suo competitor per concorrenza sleale, accusandolo di usare impropriamente la leva della sostenibilità ambientale per vendere di più. Esporsi sul green diventa quindi un’arma a doppio taglio?
I numeri sul greenwashing
Il dubbio è legittimo: se il greenwashing fosse tenuto un po’ a bada, e così anche l’attenzione mediatica che scatena, saremmo qui ad assistere a questo nuovo fenomeno, che presagisce derive legali preoccupanti?
Un’indagine della Commissione europea, delle autorità nazionali di tutela dei consumatori insieme ad altre autorità internazionali, sotto il coordinamento della Ipcen (Consumer Protection and Enforcement Network), ha sottolineato come nel 42% dei casi le autorità abbiano ritenuto ingannevoli e non veritiere le comunicazioni green. In questo contesto, in oltre il 50% dei casi le aziende non hanno dato ai consumatori informazioni sufficienti per valutare quanto comunicato in materia di sostenibilità. Nel 37% il claim conteneva formulazioni generiche e vaghe, come “eco” e nel 59% dei casi non venivano esplicitati elementi a supporto di quanto dichiarato. Questi dati rendono bene il quadro: fare greenwashing non significa solo dare informazioni false, ma anche fornire comunicazioni incomplete, fuori di contesto, non verificate né verificabili.
La reazione dell’UE
Pochi mesi fa il Parlamento Europeo ha approvato la proposta di direttiva sulla responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde. Si tratterebbe di un pacchetto di nuove norme per migliorare l’etichettatura e la durabilità dei prodotti e mettere un freno alle dichiarazioni ingannevoli. L’obiettivo è aiutare i consumatori a fare scelte consapevoli e rispettose dell’ambiente, incoraggiando le aziende a offrire loro prodotti più durevoli e sostenibili e ad adottare una comunicazione più trasparente e corretta. Fare greenwashing, per fortuna, diventerà sempre più difficile.
Dal greenwashing al greenbickering: non stiamo dimenticando qualcosa?
Rafforzare la normativa, bene. Far crescere consapevolezza tra cittadini e consumatori, ottimo. Richiedere informazioni sempre più strutturate, comparabili, puntuali e trasparenti, fondamentale per migliorare il livello generale della comunicazione della sostenibilità. Tutto benissimo, ma quando si parla di greenwashing – e delle sue progenie come greenhushing e greenbickering – ci si dimentica sempre di un aspetto tutt’altro che secondario. Comunicare in modo ingannevole i temi di sostenibilità ambientale non è sempre e solo frutto di una tattica truffaldina, di una scelta consapevole di ingannare. Spesso, le aziende che cadono nel greenwashing lo fanno in maniera inconsapevole: mancano le competenze rispetto ai temi di sostenibilità, una certa formazione anche in ambito comunicativo, una visione strategica che sappia coniugare piani, obiettivi e risultati in un quadro coerente.
Quindi bene reagire di fronte alla comunicazione imprecisa e scorretta – anche a livello legale, come nel caso del greenbickering – ma senza una parallela azione di diffusione culturale e un rafforzamento delle conoscenze e delle competenze il greenwashing è qui per rimanere.