La comunicazione ESG al bivio
Parliamoci chiaro: l’unica ricetta è la trasparenza, il mettere in chiaro le proprie possibilità e anche i propri limiti, motivando le scelte e fissando obiettivi realistici nel medio termine, senza scorciatoie. Di Sergio Vazzoler, dalla rubrica Oltre il blablabla su CSRoggi, numero di settembre (sfogliabile integralmente qui)
Una volta la parola magica era CSR, poi è diventata sostenibilità, infine oggi è tutto un andirivieni di ESG (Environmental, Social and Governance), formula che viene applicata a qualsiasi contesto aziendale: report e indicatori, politiche, programmi e piani, investimenti, regole e certificazioni. E soprattutto alla comunicazione, tanto che in una società come la nostra, fondata sulle connessioni, l’imporsi del racconto ESG ha portato con sé un altro termine che si diffonde in modo virale: lo spaventoso “greenwashing”.
La circolazione dei due termini corre parallela e rapida ma se per i criteri ESG il “via vai” riguarda essenzialmente la comunicazione aziendale e gli addetti ai lavori (un club che cresce ogni giorno di più ma rimane ancora inaccessibile a larga parte delle PMI*), nel caso del greenwashing assistiamo a una fascinazione mediatica decisamente più marcata e diffusa: le due ore di inchiesta in prima serata da parte di Report sul gruppo alimentare Fileni e le rinnovate polemiche intorno alla presenza di Plenitude/Eni al Festival di Sanremo rappresentano soltanto un assaggio d’inizio anno di quanto avverrà nei prossimi mesi su questo fronte.
Comunicazione ESG, meglio non perdere di vista gli obiettivi
Intendiamoci, che i riflettori si accendano sulle non poche distorsioni di una comunicazione poco trasparente, spesso ridondante e – cosa ancor più grave – lontana dai fatti, è cosa quanto mai salutare e necessaria. E chi opera seriamente impegnandosi in strategie, programmi e azioni ESG tangibili e verificabili ha tutto l’interesse a emergere e distinguersi rispetto a chi ciurla nel manico, con malizia o meno. Ciò che, al contrario, non funziona in questa nuova moda della caccia all’impostore è l’ormai consueta tendenza dei media (ma non solo) a perdere di vista l’obiettivo numero uno imposto dalla crisi climatica e ambientale e dalla conseguente necessità di dare gambe e fiato al processo di transizione ecologica: colmare il gap di conoscenza, consapevolezza e strumenti operativi per ripensare il proprio agire – anche d’impresa – e contribuire tutti insieme a una maggiore sostenibilità sociale e ambientale del sistema economico.
Entriamo nel merito.
Le emergenze si consolidano giorno dopo giorno e sempre di più rivelano la loro natura di crisi strutturali. Per forza di cose nel 2022 l’attenzione si è concentrata sulla crisi energetica ed è passato in secondo piano l’impatto della crisi idrica che ha visto, solo per citare un dato, la perdita di ben 6 miliardi di euro nei raccolti della pianura padana e, salendo in quota, il venir meno dell’equazione tra stagione invernale e sci alpino. Senza troppi giri di parole c’è un evidente rischio di bruciare un pezzo fondamentale di Made in Italy che coinvolge imprese agricole, alimentari, produttive e turistiche. Ecco, allora, che abbiamo bisogno che i soggetti di queste filiere così preziose virino rapidamente verso modelli, produzioni e tecnologie più sostenibili e che adottino una visione integrata, collaborando tra di loro, mettendosi in rete e scambiandosi esperienze, competenze e applicazioni innovative.
E qui ritorniamo al ruolo della comunicazione che deve incessantemente concentrare i suoi sforzi nella diffusione culturale della sostenibilità, far emergere tanto i vincoli a cui far fronte quanto i vantaggi competitivi per ’avviare sui binari corretti il proprio percorso ESG e, non da ultimo, valorizzare i progressi compiuti dalle singole realtà in un’ottica collaborativa, favorendo, così, la contaminazione di saperi e applicazioni. La transizione ecologica non è una passeggiata e le imprese, in particolare le PMI che rappresentano l’ossatura del nostro sistema economico, devono essere incoraggiate nell’affrontare le tante sfide ad essa connesse. Ecco perché bisogna stare attenti a non trasformare il dibattito intorno al greenwashing da un approccio di controllo e verifica a uno spauracchio che può dissuadere anziché incoraggiare gli sforzi verso una politica ESG.
Torniamo al punto di partenza e al vocabolario.
Il termine che indica l’orientamento di un’impresa a non comunicare la sostenibilità dei propri prodotti e processi è “greenhushing”: un silenzio verde che nasce proprio dal timore di aprirsi alle critiche. Ma al di là dei neologismi, ciò che conta è prendere molto sul serio il rischio di veder nascondere impegni e azioni sostenibili da chi muove i primi passi su questo campo di gioco. In uno scenario caratterizzato da normative sempre più stringenti e rigorose (ottima notizia ma che comporta un naturale tempo di apprendimento e una rilevante fatica organizzativa), la paura di vedersi sbattuti in prima pagina o, peggio ancora, di essere oggetto di contenziosi può davvero comportare un pericoloso ripiegamento in termini di rendicontazione e comunicazione.
Parliamoci chiaro: l’unica ricetta è la trasparenza, il mettere in chiaro le proprie possibilità e anche i propri limiti, motivando le scelte e fissando obiettivi realistici nel medio termine, senza scorciatoie. Al contempo, guai ad alzare l’asticella mentre il saltatore ha già preso la rincorsa, così vanificheremo gli sforzi che invece vanno sostenuti, incoraggiati e comunicati affinché qualcun altro decida di provare a saltare.
* Secondo una recente ricerca Capterra condotta sui CEO e i dirigenti di 266 PMI italiane, il concetto ESG risulta ancora oscuro al 27% del campione intervistato: https://www.capterra.it/blog/3390/strategia-esg-pmi
Sergio Vazzoler
l’intervento originale è su CSRoggi di febbraio 2023: qui.