La piattaforma della Royal Dutch Shell specializzata nelle trivellazioni petrolifere, che si è incagliata a largo di un’isola remota dell’Alaska durante una grave tempesta, ha riacceso il dibattito sulle trivellazioni nell’Oceano Artico; secondo gli oppositori, l’incidente è un’avvisaglia di quanto potrebbe succedere al nord dello Stretto di Bering se i programmi Shell venissero portati avanti.
Da anni gli ambientalisti affermano che le condizioni atmosferiche sono troppo severe e che i potenziali rischi sono troppo alti per consentire attività di sviluppo industriale nell’Artico, dove i siti di trivellazione distano almeno 1500 km dalla più vicina stazione della guardia costiera. Nella regione si trovano alcuni degli ecosistemi più remoti e più delicati del pianeta, che ospitano orsi bianchi, balene in via di estinzione ed altri mammiferi marini di importanza critica per la cultura di sussistenza della popolazione indigena. Inoltre, dicono i critici, Shell non avrebbe adottato precauzioni sufficientemente rigorose per far fronte al severo ambiente artico e poter gestire eventuali attività di trivellazione in condizioni di sicurezza.
Da parte sua, Shell ritiene che l’incidente fornirà indicazioni importanti per migliorare i programmi di estrazione del petrolio dal fondale marino. Ha investito miliardi di dollari per la preparazione delle trivellazioni a largo della costa nord e nord-ovest dell’Alaska e conferma la propria intenzione di realizzare un business pluridecennale di successo nella regione.
Nel frattempo, l’oleodotto trans-Alaska opera a meno di un terzo della propria capacità a causa della diminuzione delle riserve North Slope; le autorità dello Stato dell’Alaska considerano le trivellazioni nell’Artico come una soluzione per aumentare la portata dell’oleodotto e mantenere l’economia in uno stato di salute.