Bill Vorley Il cosiddetto business inclusivo – legare le comunità a basso reddito alle supply chain delle grandi corporation – è stato un fenomeno importante degli ultimi dieci anni. Nel settore agroalimentare, ciò ha significato integrare i contadini poveri nelle supply chain dei produttori e rivenditori di alimenti, anziché in un commercio tradizionale tramite intermediari. La logica è convincente, data la presenza di oltre mezzo miliardo di piccole tenute familiari nei Paesi in via di sviluppo. I contadini ottengono l’accesso a mercati di maggiore valore, gli operatori del settore alimentare accedono a nuove fonti, i donatori e i Governi ottengono un maggiore ritorno in termini di sviluppo. Eppure, nonostante un ingente e crescente numero di progetti pilota di successo, le iniziative di business inclusivo hanno difficoltà a raggiungere una massa critica. E’ una soluzione che spesso non si adegua bene alle realtà dei contadini come fornitori e a quelle dei business come acquirenti. Prima di tutto, i contadini. Aumenta la concorrenza su quanto producono gli agricoltori. In particolare, l’Africa subsahariana assiste a uno spostamento importante della propria agricoltura, che si allontana dalle esportazioni per orientarsi verso le proprie popolazioni urbane in rapida espansione. Secondo un recente rapporto OCSE, nell’Africa occidentale, dove il 42{f94e4705dd4b92c5eea9efac2f517841c0e94ef186bd3a34efec40b3a1787622} della popolazione vive già in ambienti urbani, la dipendenza dell’agricoltura dalle esportazioni si è ridotta dal 50{f94e4705dd4b92c5eea9efac2f517841c0e94ef186bd3a34efec40b3a1787622} nel 1961 al 12{f94e4705dd4b92c5eea9efac2f517841c0e94ef186bd3a34efec40b3a1787622} nel 2010. Le reti di distribuzione degli alimenti si stanno estendendo dalle zone urbane verso le aree rurali. Il mercato si è avvicinato alla fattoria, offrendo ai contadini una maggiore scelta in termini di cosa produrre e dove vendere. La cosiddetta contract farming (coltivazione in base a un accordo tra gli agricoltori e gli acquirenti) e le esportazioni verso il mercato globale non sono più l’unica possibilità. Le cipolle Unilever costavano troppo poco La liquidità è un altro fattore importante. La maggior parte delle piccole tenute familiari ha grossi problemi di cash flow. La rinuncia da parte di molti Governi di fornire servizi sanitari e istruzione costringe le famiglie a trovare le risorse per pagare le tasse scolastiche, un enorme onere per chi ha un reddito basso. Per consentire ai figli di andare a scuola, le famiglie si dedicano quindi a colture da reddito, e le coltivazioni di cibo per la famiglia si trasformano anch’esse in colture da reddito in casi di emergenza. Non c’è da meravigliarsi quindi se i contadini preferiscono vendere a chi li paga subito, in contanti, anziché proseguire programmi fatti di contratti, aderenza a gruppi di produttori, pagamenti in ritardo e rigorosa conformità con le norme di qualità. Ho trovato situazioni del genere mentre studiavo un’iniziativa di contract farming in Uganda, che legava contadini molto poveri con un produttore di cibo – Mukawno – con sede in Uganda, ma attività di vendita nell’Africa orientale. Presentato come un esempio riuscito di inclusive business, in realtà il programma si trovava in difficoltà cercando di competere con un commercio crescente fatto di scambi informali tramite contanti, con operatori locali o commercianti con sede in Kenya. In Tanzania, un piano per un progetto di inclusive business che avrebbe collegato i coltivatori di cipolle a Unilever è stato abbandonato quando ci si rese conto che il mercato locale per cibi freschi pagava molto di più rispetto al prezzo commodity globale. Non si sente parlare degli insuccessi Bisogna considerare anche la prospettiva dell’acquirente. I produttori e i rivenditori di cibi vogliono quello che hanno ordinato. L’affidabilità dei piccoli contadini nel soddisfare gli ordini è sempre fluttuante, perché devono gestire il rischio generato dalla variabilità del clima e da un’organizzazione un po’ approssimativa. Un’impresa accetterà per buona volontà qualche consegna mancata, ma non è ragionevole aspettare che si adatti agli imprevisti della piccola agricoltura. Esiste un problema fondamentale di incompatibilità di business. Questo l’ho visto nel caso di una piccola impresa innovativa in Kenya, che collegava centinaia di contadini all’asta olandese dei fiori. L’impresa voleva espandersi verso mercati a maggiore valore e vendere direttamente ai supermercati. Con il sostegno di un donatore, un supermercato ed esperti di supply chain, il progetto è stato implementato con successo.Con il passare degli anni, però, diventò chiaro che conveniva all’impresa e ai fornitori trattare con l’asta anziché con i supermercati, perché l’asta prendeva i fiori forniti dall’impresa e dai coltivatori. I prezzi medi erano forse un po’ più bassi, ma tenuto conto di tutti i costi, il valore ottenuto dai coltivatori era maggiore. Le problematiche di incompatibilità di business sorgono in molti progetti. Una volta terminati gli aiuti dei donatori e il sostegno delle Ong, il futuro diventa molto incerto. Eppure, si parla poco di questi casi, quindi quanto riferito nella letteratura di business è quasi sempre positivo. Guardate sotto la superficie, invece, e si trovano esempi, da Nicaragua a Nairobi, di mercati informali dinamici che prendono il sopravvento sul business inclusivo. Il business inclusivo ha bisogno del settore informale I programmi che ricorrono al business agroalimentare per incentivare lo sviluppo hanno molto da offrire: migliorare il welfare dei lavoratori, ridurre l’impatto ambientale, raggiungere maggiore equità negli scambi. Tutti aspetti importanti. Ma l’inserimento di contadini sempre più piccoli nelle supply chain può distrarre da questo impegno. Per tenere insieme l’inclusione e il business in modo più stabile e scalabile, spinto meno dalle pie speranze e più dai fatti, bisogna guardare oltre il big business. Il paradosso è che il business inclusivo va gestito in modo più inclusivo. In molti paesi, l’economia informale domina gli scambi, la lavorazione e la vendita del cibo. Ma gli operatori sono sovente soggetti a ostruzionismo e ostilità da parte dei funzionari che li considerano illegali, non-igienici, evasori di imposte e ostili al progresso. Ci sono grandi possibilità per migliorare le performances economiche, sociali e ambientali dell’economia informale in scala, senza far perdere posti di lavoro. Perché l’agenda di sviluppo post-2015 – per l’occupazione, la sicurezza del cibo e la crescita inclusiva – abbia successo, i Governi dovrebbero cercare di orientare le risorse verso la comprensione e il miglioramento dell’economia informale. Fonte: https://www.theguardian.com/sustainable-business/2016/aug/31/unilever-africa-farmers-inclusive-business-agrifood-development]]>