Moda sostenibile e fast fashion: come l’inflazione condiziona i consumi
L’attuale crisi economica sta impattando soprattutto sulle nicchie di mercato che puntano sulla qualità e non sulla quantità. Questo vale anche per la moda sostenibile che soffre la concorrenza del fast fashion.
Nei momenti difficili, i consumatori tendono a evitare certe spese, in attesa di tempi migliori. E quando non è possibile eliminare del tutto un costo – come per i beni di prima necessità o per il vestiario – allora puntano a risparmiare scegliendo tra le alternative più a buon mercato. Che molto spesso, però, sono poco sostenibili. Questo è esattamente ciò che sta avvenendo negli ultimi mesi in numerosi settori a causa delle costanti spinte inflazionistiche. Il settore della moda non fa eccezione: la maggior parte dei consumatori preferisce la convenienza alla qualità e alla eco-sostenibilità dei prodotti.
Gli italiani, la crisi e la moda sostenibile: quale impatto sul pianeta
Secondo una recente analisi condotta dalla marca low cost Primark, su un campione di mille italiani circa il 95% è stato colpito dall’inflazione nella propria quotidianità. A questo dato allarmante si aggiungono altre tre evidenze: il 48% degli intervistati teme che l’aumento del costo della vita non permetterà di mantenere lo stesso tenore avuto in passato, il 39% dichiara che acquisterà nei prossimi mesi solo capi essenziali del guardaroba e il 31% afferma di essere al momento disincentivato dal comprare un qualsiasi capo ecosostenibile.
La ricerca evidenzia come, nell’acquisto di vestiti, gli italiani siano influenzati maggiormente dal prezzo piuttosto che da altre caratteristiche quali la qualità, il comfort, la provenienza, la marca e l’impatto sul pianeta. Il 35% degli intervistati ritiene persino che il costo sia l’unica discriminante nella scelta del prodotto mentre soltanto il 30% si dimostra sinceramente preoccupato per l’impatto della moda sul pianeta (senza però indicare se questa apprensione si traduca davvero in una scelta responsabile – e quindi più costosa – del prodotto).
I risultati fanno emergere due criticità. La prima è che gli italiani continuano a percepire la moda sostenibile come una opzione troppo costosa rispetto a quella “tradizionale” proposta dalle catene fast fashion. La seconda è che la maggior parte degli intervistati non tiene in considerazione l’impatto ambientale che le proprie scelte quotidiane nel vestire generano sul pianeta, usando come parziale giustificazione il contesto economico attuale che impone decisioni più pragmatiche.
Il problema si allarga nei Paesi occidentali
Un’altra conferma internazionale del trend giunge dalla creata in collaborazione tra Première Vision SA – principale organizzatore francese di fiere del fashion – e l’Istituto Francese per la Moda. L’IFM-Première Vision Chair (questo il nome del corso) ha condotto un’indagine su un campione di 7.000 persone in 5 Paesi (Francia, UK, Italia, Germania e USA) dimostrando che la moda eco-sostenibile non è più una tendenza, bensì un solido mercato che assorbe circa un terzo del budget per l’abbigliamento mondiale. Tuttavia, la sostenibilità non è ancora tra i valori più ricercati dai consumatori che continuano a basare la propria scelta su tre fattori: prezzo, comfort e qualità.
Una contestualizzazione di questo andamento è fornita dal direttore stesso di IFM, Gildas Minvielle: “con il ritorno dell’inflazione e di budget familiari più stretti, la decisione di acquistare vestiti potrebbe diventare più complessa a prescindere dal fatto che i capi siano eco-responsabili o meno”. Non stupisce quindi che quest’anno il prezzo sia l’elemento prioritario nella scelta di un vestito in tutti i Paesi occidentali analizzati. Segue al secondo posto la qualità in Europa e il comfort negli USA.
La moda per l’ambiente: il caso Patagonia e il progetto SERR
Sebbene le prospettive per la moda sostenibile non siano rosee nel prossimo futuro, non mancano le iniziative private e pubbliche nel settore dell’abbigliamento per difendere l’ambiente. Nelle ultime settimane ha destato scalpore la decisione di Yvon Chouinard, founder dell’azienda statunitense Patagonia, di cedere il 100% della società alla no-profit Holdfast Collective, impegnata da anni nella lotta al cambiamento climatico. Una scelta sbalorditiva, essendo stata del tutto volontaria e priva di qualsiasi beneficio fiscale. L’obiettivo dichiarato è di utilizzare tutti i profitti generati dalla ditta (circa 100 milioni negli ultimi tre anni) per salvaguardare il pianeta.
Anche in Europa l’attenzione su questo tema è molto sentita. In questi giorni si sta cominciando ad organizzare la Settimana Europea per la Riduzione dei Rifiuti (SERR). Si tratta di una campagna di sensibilizzazione e call-to-action europea sulla prevenzione dei rifiuti che si svolgerà quest’anno dal 19 al 27 novembre. Il tema scelto per la XIV edizione ruota attorno al tessile circolare e sostenibile e l’obiettivo è coinvolgere cittadini, associazioni, istituzioni, scuole e aziende ad agire per prevenire, ridurre e riciclare i rifiuti tessili (ma non solo) seguendo il motto “i rifiuti sono fuori moda”.
Come accompagnare il cambiamento
Iniziative di questo tipo sono fondamentali per modificare i processi produttivi delle imprese e agire sulle scelte dei consumatori. Da un lato le aziende della moda dovranno sviluppare nuove competenze etiche e politiche responsabili per rimanere competitive, visto il trend sostenibile già presente e che influenza un terzo del settore. Dall’altro lato i consumatori dovranno essere accompagnati in questo cambio di prospettiva per poter maturare una consapevolezza maggiore sul tema, influenzando così il mercato e . Nel contesto attuale, segnato da continue spinte inflazionistiche, svolgeranno un ruolo primario i piccoli gesti quotidiani responsabili (a partire da quelli che coinvolgono i beni di prima necessità quali cibo e vestiario). Queste azioni, moltiplicate per milioni e milioni, possono davvero segnare un cambiamento nei processi produttivi nel comparto della moda e non solo.