Per far vivere la sostenibilità servono domande scomode
L’economia civile evocata dal Capo dello Stato interroga imprese e comunicazione ESG. Articolo di Sergio Vazzoler, uscito sul numero di settembre-ottobre di CSRoggi.
“Le aziende sono al centro di un sistema di valori, non soltanto economici. (…) l’impresa ha responsabilità che superano i confini delle sue donne e dei suoi uomini; e, aggiungo, dei suoi mercati. (…) Generare ricchezza è una delle prime responsabilità sociali dell’impresa. Naturalmente, non a detrimento di altre ricchezze, individuali o collettive (…) Il principio non è quello della concentrazione delle ricchezze ma della loro diffusione. (…) Il bilancio che ne va tratto non interpella i singoli stakeholder aziendali ma si rapporta all’intero sistema economico e sociale. È quel concetto ampio di economia civile…”
Valori, responsabilità sociale, diffusione delle ricchezze, economia civile: questi solo alcuni dei concetti-chiave richiamati dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione dell’assemblea annuale di Confindustria. E, come spesso accade, il Capo dello Stato utilizza ogni singola parola con meticolosa cura, lasciando a lettori e ascoltatori il compito di riflettere circa il significato in un dato contesto e in un preciso momento.
A cosa ci richiama il discorso di Mattarella?
Per chi si occupa di affiancare le imprese lungo la strada, faticosa ma affascinante, della transizione in chiave sostenibile, può essere interessante isolare le keywords utilizzate dal Presidente Mattarella davanti agli imprenditori italiani per decodificare l’attuale stato di salute della CSR nel nostro Paese e comprendere come le imprese comunichino in questa fase valori, azioni e responsabilità del loro percorso.
Lasciamo per una volta decantare il dibattito che tanto appassiona il mainstream circa le pennellate di verde di chi coltiva l’arte del greenwashing, per provare a restare su un terreno meno gettonato nel discorso pubblico ma potenzialmente assai più scivoloso e impattante. Ponendoci una domanda secca: siamo sicuri che il significato di materialità – l’ormai noto incrocio tra le questioni prioritarie, essenziali nella strategia dell’impresa e le esigenze/aspettative degli interlocutori aziendali – sia interpretato nel modo giusto?
Rendicontazione e comunicazione
La nuova direttiva europea sul reporting di sostenibilità (CSRD) ha inteso rafforzare il concetto di materialità raddoppiandolo: le imprese d’ora in avanti dovranno, infatti, fornire informazioni di sostenibilità sia in merito all’impatto delle proprie attività sulle persone e sull’ambiente (approccio inside-out), sia riguardo al modo in cui i fattori di sostenibilità incidono su di esse e sui loro risultati (approccio outside-in). E, in virtù di questa sorta di “lascia o raddoppia”, molte imprese si stanno dando da fare per aderire a questo nuovo indirizzo normativo, strutturando maggiormente i propri percorsi di ascolto e ingaggio con gli stakeholder e investendo importanti risorse per essere compliant.
Fin qui tutto bene: dall’ascolto e dal coinvolgimento delle diverse comunità interne ed esterne all’azienda, il management acquisisce consapevolezza e sviluppa nuove idee per definire al meglio come fissare obiettivi e sviluppare strategie di sostenibilità. Parallelamente, però, sembra emergere una distanza crescente tra un percorso fortemente orientato alla rendicontazione, che diventa così sempre più ricca e complessa, e una comunicazione che non tiene il passo, lenta a cogliere un analogo salto di qualità nel far vivere valori e responsabilità prese in carico.
Domande scomode (?)
Entriamo nel merito di questo “scarto” tra doppia materialità e comunicazione a binario unico, ricorrendo all’attualità della cronaca: in quanti bilanci di sostenibilità si legge come si stanno affrontando gli impatti della guerra ai confini Nato con le sue implicazioni su costi di produzione e bollette energetiche? E come si gestisce la cosiddetta “inflazione climatica” che incide sempre più fortemente sui prezzi dei prodotti e dei trasporti nella vita quotidiana di collaboratori, fornitori e clienti?
E a proposito di crisi climatica: accanto agli ormai consolidati impegni sul medio termine rispetto alla decarbonizzazione, dove si trova traccia rispetto a cosa fare nelle giornate più torride in termini di orari e condizioni di lavoro nei reparti produttivi (ma non solo)? Quale puntino colorato della matrice di materialità corrisponde al tema del gender gap, ancora oggi così fortemente discriminatorio per la popolazione femminile? E per caso troviamo in qualche lettera agli stakeholder una velata autocritica sull’aver sponsorizzato con colpevole leggerezza influencer e youtuber campioni di visualizzazioni e di comportamenti borderline?
Un piccolo e parziale campione di quesiti che può aiutarci nell’allenamento a non perdere la bussola della vita reale mentre studiamo e proviamo ad applicare le ultime innovazioni tecniche e normative in termini ESG.
Far vivere la sostenibilità vuol dire proprio questo: farsi domande, soprattutto quelle scomode, affrontare la complessità e le sue inevitabili contraddizioni, evitare le scorciatoie o le zone di comfort e non temere di dichiarare o rendicontare passi falsi o ritardi nella risposta ad aspettative ed emergenze ambientali, sociali e di governance. Far vivere la sostenibilità ha forse anche a che fare con un’economia civile che si misura (davvero) con le persone, le relazioni e i luoghi, riempiendo di significato autentico la materialità e lo stakeholder engagement