Elena Rossi e Sergio Vazzoler Il referendum del 17 aprile sulle trivellazioni petrolifere lungo la costa italiana è passato, facendo molto rumore, ma di fatto senza produrre alcun effetto. Se per alcuni il fallimento del referendum è da ricercare nelle polemiche che si sono sollevate negli ultimi giorni prima del voto, trasformando il dibattito da ambientale a politico, per altri il contenuto troppo tecnico della consultazione ha scoraggiato l’elettorato. Tutto vero, ma la comunicazione? Un mese prima del voto, in questa analisi mettevamo in guarda dal ricorrente rischio di deriva catastrofista i movimenti ambientalisti e ammonivamo gli “ottimisti&razionali” del fronte del NO sullo scarso appeal della loro proposta comunicativa. Per tutto il periodo elettorale sui media e in rete sono dilagati articoli, infografiche, vignette, per sfatare le “bufale”, dell’una e dell’altra parte. Non sono mancate campagne di cattivo gusto, di cui avremmo fatto volentieri a meno, e neppure commenti superficiali, come l’ormai tristemente famoso #ciaone di Ernesto Carbone della Segreteria Nazionale Pd: segnale di scarsa consapevolezza nell’utilizzo dei social e soprattutto dei suoi effetti sull’agenda mediatica e politica. Slogan poi riadattato in chiave partigiana dai No Triv, in occasione del 25 aprile, a scherno del partito del Presidente del Consiglio: “Bella #ciaone”. E oggi, che l’attenzione è scemata, cosa resta? I canali di comunicazione dei comitati ufficiali, Coordinamento Nazionale No Triv e Ottimisti & Razionali, si sono progressivamente “spenti”. Solo sui social il dibattito continua, seppur a bassi ritmi ma su temi “laterali”: su Facebook i No Triv da giorni tengono accesi i riflettori sull’incidente alla Iplom di Busalla e sull’inquinamento del torrente Polcevera, mentre gli Ottimisti&Razionali hanno raccontato il vertice di Doha tra i Paesi che fanno parte dell’Opec. E qui veniamo al nodo vero della questione e forse anche a una delle motivazioni del fallimento del quorum: l’utilizzo di un quesito referendario per scopi diversi rispetto al merito della questione specifica delle concessioni di estrazione a mare. Già, perché la credibilità di un messaggio si misura sempre nel riflesso dei comportamenti: se questi non risultano coerenti, come in questo caso, la comunicazione mostra che il “re è nudo” e lo era anche prima del voto. Il vecchio vizio della comunicazione ambientale Infine una riflessione lo merita anche la comunicazione ambientale, al di là del merito relativo al quesito referendario: senza troppi giri di parole, chi si batte per la difesa dell’ambiente, continua a non trovare la convinzione necessaria per abbandonare definitivamente la scorciatoia del “ba-bau” e adottare, invece, un codice comunicativo positivo in grado di attrarre i cittadini verso un futuro più prospero, dove ambiente e sviluppo possano convivere in modo più armonioso ed economicamente vantaggioso. Eppure ultimamente il mondo ha dimostrato che è proprio questa la chiave di volta per ottenere risultati importanti dal punto di vista ambientale: si ripensi alla recente esplosione nel mondo del business di iniziative e appelli a sostegno di un accordo per il clima. Fin tanto che il dibattito si limitava ai “pericoli” del climate change la comunità economica è rimasta silente e distante, solo quando si è prospettata la convenienza nel superare tali minacce tramite la conversione ad un’economia tanto verde quanto profittevole, si è avuto un deciso e importante cambio di marcia e i primi risultati si sono potuti apprezzare a Parigi lo scorso dicembre. Forse una riflessione più coraggiosa andrebbe fatta su questo terreno: tenere insieme, anche e soprattutto nella comunicazione, la sostenibilità economica con quella ambientale.]]>