In occasione della recente BIT – Borsa Internazionale del Turismo, che si è tenuta a Milano lo scorso febbraio, Fondazione Univerde e IPR Marketing hanno presentato una ricerca sul turismo sostenibile in Italia. Oltre la metà degli intervistati afferma di porsi il problema di non fare scelte che danneggino l’ambiente in fase di pianificazione di una vacanza. E addirittura l’88 per cento sostiene che il vincolo della sostenibilità sia “una necessità” o una “opportunità di crescita” per lo sviluppo di un’area a vocazione turistica. Ma tutta questa sensibilità “a parole” si traduce in atteggiamenti concreti? Lo abbiamo chiesto ad Alessandro Biasi, direttore marketing di Hotelplan, uno dei principali tour operator del nostro Paese.
Se dico ecoturismo…
Tocca un tasto delicato, e qui in Hotelplan anche fonte di qualche sofferenza.
E perché?
Noi abbiamo creduto fortemente alle possibilità di sviluppo del turismo sostenibile, tanto che nel 2005 abbiamo lanciato i TClub, coinvolgendo una decina di strutture in tutto il mondo, dalle Maldive al Mar Rosso, dal Kenia a Bali. Questi nostri TClub sono stati concepiti con una doppia anima. La prima anima è ecologica, con una grande attenzione a conservare l’ambiente naturale, a non sprecare risorse o a generare consumi inutili, a rispettare le architetture locali, a sensibilizzare il personale sulla necessità di assumere comportamenti consapevoli. La seconda anima è invece culturale e scientifica. Abbiamo previsto la presenza di esperti, come il biologo marino, l’astronomo, l’etologo, l’antropologo, l’archeologo, a seconda delle destinazioni.
Tutto il catalogo TClub è nato a impatto zero. All’inizio abbiamo avviato una collaborazione con Lifegate su molti aspetti, prevedendo anche azioni di compensazione parecchio onerose, come la piantumazione nelle foreste.
Ma non è andata come speravate…
No. Direi che l’insuccesso ha avuto motivazioni sia congiunturali, sia strutturali. Certo la congiuntura, il timing non sono stati favorevoli. Nel 2008 – con il crac Lehman Brothers che io considero una pietra angolare per il mercato del turismo internazionale – il cliente, quando non è sparito del tutto, ha guardato una cosa sola: il prezzo. Quindi, con il mercato in forte crisi, aggravata dalle tensioni sociali che hanno ridimensionato in maniera eccezionale alcune mete per noi importantissime, come l’Egitto, siamo stati costretti a un forte ridimensionamento di questo nostro progetto.
Ma ci siamo accorti anche che ci sono ragioni strutturali, organiche al nostro settore. Tradurre sensibilità e attenzione all’ambiente in comportamenti concreti non è semplice in strutture che sono geograficamente lontane, dove la proprietà è spesso fisicamente distante e dove le abitudini e culture locali non sono affatto pronte. Le faccio solo un esempio: alle Maldive abbiamo spinto molto sul fronte della raccolta differenziata: tutto partiva dal resort in compartimenti ben distinti. Poi, abbiamo scoperto con raccapriccio, che la chiatta che trasportava i rifiuti andava al largo, dove non era più in vista, e ogni tanto buttava tutto in mare.
Quindi come vede il futuro del turismo sostenibile? Anzi, c’è un futuro?
Io credo che oggi la fascia di clientela disponibile a pagare un sovraprezzo per fare le proprie vacanze in una struttura ecosostenibile sia da valutare in pochi punti percentuali. E devo dire che sono pochissimi anche solo quelli che si informano realmente sulla possibilità di optare per una struttura di un certo tipo, come un eco-lodge.
Nelle chiacchiere da bar siamo tutti attenti e sensibili: quando si tratta di scegliere la nostra vacanza, guardiamo solo il prezzo. C’è stata una compagnia aerea internazionale che chiedeva un piccolo sovrapprezzo per chi voleva contribuire a diminuire le emissioni di anidride carbonica. E’ stato un flop. Nessuno era disposto a pagare, anche se si trattava di una cifra molto modesta.
Quindi il turismo sostenibile funziona se non costa di più del turismo tradizionale. Anzi, può funzionare davvero se costa di meno.
Per esempio?
Se decido di fare un week end fuori porta, in campagna, in montagna, in un agriturismo, di solito scelgo località non troppo battute dal turismo tradizionale e quindi posso trovare prezzi competitivi. Ecco, quel tipo di turismo – che mette assieme attenzione all’ambiente, allo stare all’aria aperta, alle tradizioni e ai cibi locali – ha ancora margini di crescita. Però ha dei confini geografici ben precisi. Se mi spingo in una città d’arte o al mare le cose cambiano drasticamente e il prezzo diventa di nuovo l’unico termine di paragone.
Niente da fare sulle destinazioni classiche, quindi.
No, lì non vedo spazi. Credo, come dicevo, che ci siano sviluppi promettenti per gli agriturismo e i bed and breakfast, per vacanze che potremo definire slow o anche semplicemente low cost. Sta maturando una fascia di clientela che collocherei tra i classici backpackers e coloro che iniziano a usare i servizi dei tour operator. E’ un fenomeno che cresce in tutto il mondo. Ci sono per esempio negli Stati Uniti e in Australia dei circuiti di bed and breakfast e agriturismo che consentono di spendere la metà rispetto a un tour classico, e anche di vivere molto più intensamente l’interazione con la realtà locale. Sorge però il problema della barriera linguistica. Per questo, questi circuiti, così come accade anche in Italia, sono conosciuti e praticati in prevalenza da un turismo locale.
Si dice che gli italiani siano molto meno sensibili agli aspetti ecologici rispetto ad altre popolazioni. E’ vero?
Sicuramente i popoli del nordeuropea sono molto più attenti a queste tematiche. Oltre a essere insensibili, noi italiani siamo anche molto diffidenti. Temiamo di essere presi in giro e di incappare in una sorta di “ecologia farlocca”. In effetti c’è anche molto fumo negli occhi: non bastano due mucche che pascolano davanti all’albergo per fregiarsi di un qualche appellativo “green”.
Un po’ come nei bagni degli alberghi il cambio degli asciugamani: “se vuoi fare la scelta ecologica, non farli lavare tutti i giorni.
… e poi tutto il resto della struttura consuma come un’astronave. Infatti è un’attenzione che essenzialmente fa del bene solo alle tasche del proprietario dell’albergo. Però non è solo un vezzo italiano. Fanno così in tutto il mondo.
Ho letto che Hotelplan ha intrapreso iniziative sociali in favore delle popolazioni locali.
Sì, abbiamo fatto parecchio. Il nostro ex direttore generale, Anna Schuepbach, ha portato in azienda la sua sensibilità al tema dell’educazione. Abbiamo costruito scuole in Madagascar, in Kenia, in Sri Lanka, alle Maldive dopo lo tsunami.
Iniziative in vita ancora oggi?
Le scuole ci sono e vanno avanti per conto loro. Noi ci siamo dedicati a progetti più “leggeri”. Per esempio in Sudafrica, con la donazione di 3 euro per ogni passeggero per l’acquisto di medicinali che bloccano la trasmissione del virus Hiv da madre a figlio.
Ma sostenibilità non significa solo consapevolezza, ma anche impegno attivo di tutta la filiera (dipendenti, fornitori, clienti ), e seguendo questo pensiero abbiamo firmato nel febbraio 2006 il Codice di Condotta ECPAT per la protezione di bambini e adolescenti contro lo sfruttamento sessuale nei viaggi e nel turismo.