Luca Valpreda Blueprint for Better Business è una onlus inglese, il cui obiettivo è quello di incoraggiare le imprese a ridefinire il proprio scopo aziendale per essere utili alla società nel suo complesso, per rispettare la dignità degli individui e per generare un ritorno equo per investitori responsabili. Blueprint non è un’associazione imprenditoriale, né un marchio di qualità o un ente certificatore. Si presenta piuttosto come un “movimento” che si basa su adesioni libere e volontarie. Volevamo conoscere più a fondo questa iniziativa e abbiamo intervistato Ashley Kemball-Cook, responsabile ricerca e comunicazione. Ho letto sul vostro sito questa affermazione: “The Blueprint movement is about challenging business to be a force for good”. Addirittura “una forza del bene”? Cosa significa esattamente? Nella nostra società, il business costituisce una forza con una potenza incredibile: oggi i bilanci aziendali hanno dimensioni più grosse di quelli di certe nazioni, i dipendenti e i clienti delle aziende sono più numerosi delle popolazioni e alcune corporation, rispetto alle iniziative globali, sono presenti in più paesi. In questo quadro, esistono legami fondamentali tra il business e la società e quindi se vogliamo una società sana e prosperosa anche il business deve essere sano e prosperoso. Noi crediamo che sia la società sia il business raggiungano il massimo della prosperità e della salute quando il business, nel servire la società, crea valore e rispetta la dignità delle persone. Sono temi questi legati a un modo di operare fedeli a uno scopo. Lo scopo è la ragione di essere di un’impresa, qualunque sia il servizio che offra alla società. Noi cerchiamo di incoraggiare le imprese ad identificare uno scopo che serva la società e ad operare in base a tale scope. Tutto ciò, allineato agli altri nostri strumenti, aiuta le imprese a fornire prodotti che sono veramente buoni e servizi che servono veramente. La parola inglese “purpose”, in italiano “scopo”, è un termine parecchio popolare di questi tempi… Sì, pare che il business capisca davvero il potenziale dell’operare per uno scopo. La nostra visione del concetto “purpose” si collega strettamente agli altri nostri strumenti. Blueprint ha creato il ‘Framework to Guide Decision Making’ e i ‘Five Principles of a Purpose Driven Business’, due strumenti radicati in una solida base di conoscenza in diversi campi, tra cui la filosofia, le religioni, le scienze sociali e comportamentali, per il cui sviluppo abbiamo chiamato a raccolta professori universitari, top manager e rappresentanti delle diverse fedi. Il Framework e i Princìpi colgono le vere esigenze del business e mettono la persona umana al centro del business e della società, stabilendo legami naturali tra i comportamenti del business e le necessità della società. E’ un fatto davvero positivo che si capisce il potenziale dell’avere uno scopo. Per poter realizzare tutta la sua potenza, lo scopo deve anche servire la società ed essere di ispirazione, genuina e pratica. Deve quindi identificare i destinatari dei suoi benefici, costituire una descrizione precisa dell’impresa ed essere sufficientemente chiaro per consentire di prendere decisioni. Questi cinque princìpi, e anche il framework che avete costruito attorno, sono compresi dalle organizzazioni che interloquiscono con voi? Oppure vengono percepiti come troppo difficili, troppo teorici. O anche troppo… radicali? E’ un punto interessante. Forse prima della recessione del 2008 le persone li avrebbero considerati radicali, ma oggi vedono con sempre maggiore chiarezza che il business deve adattarsi alle nuove sfide dei nostri tempi. I princìpi e il framework possono sembrare un po’ ostici. D’altro canto, derivano anche da oltre duemila anni di saggezza. Organizziamo corsi immersion di due giorni per esaminare gli strumenti in profondità e aiutare le persone a far vivere il nostro lavoro nelle loro aziende. Sarebbe interessante vedere i princìpi del Blueprint in relazione alle più diffuse convinzioni socio economiche. Ci proviamo? Molte persone pensano che gli esseri umani siano concentrati unicamente su loro stessi, che vogliono massimizzare in ogni circostanza. Ciò viene fuori nei aggressivi programmi di bonus attivati da certe imprese che in modo esplicito mettono i dipendenti uno in competizione con l’altro. E’ un modo di fare corrosivo, per sé stessi e per la società. Tutti otteniamo molto di più grazie alla collaborazione e ci divertiamo di più. Secondo noi, le persone sono capaci di essere molto collaborative, motivate da princìpi come il desiderio di maggiori relazioni, il desiderio di autonomia, il desiderio di sviluppare le proprie capacità. Crediamo anche che i migliori sistemi interni aziendali siano quelli che non si limitano ad impedire che si facciano le cose in modo sbagliato ma che aiutano i dipendenti a crescere e ad operare in modo ottimale. La motivazione migliore è investire nella relazione, aiutando le persone a ottenere quello che realmente desiderano, anziché semplicemente prospettare un bonus. Blueprint sottolinea con forza la necessità di iniziare il processo con un forte e deciso sostegno da parte del top management. Questo significa che adottate un approccio top-down? Hai ragione, è così. Non credo che questa sia l’unica strada attraverso la quale il cambiamento può avvenire, ma è una strada che funziona molto bene per noi, perché il nostro posizionamento ci porta a lavorare a stretto contatto con i top manager. Quindi la risposta è sì, abbiamo un approccio top-down anche se sosteniamo altre organizzazioni che utilizzano metodologie diverse. Quali sono le imprese che hanno manifestato il loro interesse? In totale lavoriamo oggi con circa 15 società, cui la maggiore parte fa parte dell’indice FTSE100, mentre molte altre stanno frequentando i nostri corsi introduttivi per sapere di più dei princìpi e del framework di Blueprint. Grandi nomi, però… qualche Pmi? Lavoriamo anche con le Pmi, per le quali abbiamo costruito un team specializzato. C’è una bellissima storia sul nostro sito che riguarda il signor Alex Rees, che nel 2008 ha fondato a Petworth (West Sussex) una boutique di tappeti fatti a mano. (ndr: http://www.blueprintforbusiness.org/case-study-rugs-of-petworth/) Io credo che le piccole e medie imprese siano incredibilmente importanti. Ma, essendo noi una onlus, abbiamo difficoltà a moltiplicare i nostri impegni per approcciare simultaneamente molte Pmi. Ma ci stiamo lavorando. Sappiamo che le Pmi possono apportare cambiamenti radicali in tempi molto più brevi rispetto alle aziende più grandi. Quale è stata la risposta fuori dal Regno Unito? A parte le filiali delle organizzazioni con le quali lavoriamo, non abbiamo ancora lavorato con aziende al di fuori del Regno Unito. Abbiamo ricevuto molte manifestazioni di interesse in tutto il mondo ma si tratta di capire bene come investire le nostre risorse. Spero che riusciremo a lavorare anche all’estero molto presto. Siete preoccupati di possibili azioni di “social green washing”? In termini pratici, effettuate azioni di controllo per verificare che all’adozione dei princìpi di Blueprint seguano comportamento coerenti? Ci sono due livelli da tenere in considerazione. Il primo livello è la potenziale azione di greenwashing della parola purpose, scopo. Il greenwashing della parola purpose può succedere se adottare uno scopo diventa una tendenza senza alcun impegno verso il significato di fondo della parola o verso uno scopo utile alla società. Se si ha uno scopo ma questo non arriva al cuore dell’impresa, non si affronta il tema del perché l’impresa esiste e come serve la società. Può essere una gran bella parola, ma con nulla dietro, se non una potente campagna PR, o addirittura pubblicitaria. Altre imprese, invece, stanno facendo grandi progressi in questo campo, ma non lo hanno ancora comunicato pubblicamente. Bisogna sempre guardare dietro la parola prima di valutarne il significato. Sarebbe davvero triste se tutte queste imprese che oggi affermano di avere un purpose, fra cinque anni non avranno messo in pratica cambiamenti tangibili. Tu sei uno specialista della comunicazione. Come promuovi Blueprint? Spediamo newsletter, abbiamo realizzato dei video, abbiamo dei blog, siamo attivi sui social media – Twitter, Facebook, Linkedin. Insomma, stiamo operando in una maniera che definirei convenzionale per disseminare le nostre idee. Abbiamo riscosso l’interesse del Guardian, del Financial Times e di Forbes. Quali difficoltà hai incontrato nel tuo lavoro di comunicazione? C’è sempre una linea fine tra “essere comunicabile” e “mantenere integro il messaggio”. Un esempio sciocco: come posso far stare la complessità dei nostri princìpi nei 140 caratteri di Twitter? E’ una vera sfida! Le brutte notizie tendono a girare più velocemente di quelle belle, e attaccare le aziende è un metodo per approdare sulle pagine dei giornali. So perfettamente che giudizi al fulmicotone ci guadagnerebbero maggiori spazi sui media, ma il nostro ruolo ha un orientamento di sostegno, vogliamo sostenere le aziende con le quali lavoriamo. Ma c’è anche un altro aspetto. Quando uno scandalo arriva sui media, assistiamo a una sorta di parata delle persone coinvolte, con le loro personalità e i loro comportamenti. Molto raramente i media indagano l’humus culturale che sta alla base dello scandalo, all’interno e all’esterno dell’azienda coinvolta. Lo storytelling è uno strumento importante per comunicare Blueprint? Sì, ed è un altro aspetto che stiamo curando. Osserviamo con attenzione il cammino che stanno compiendo le aziende con cui lavoriamo. Il nostro obiettivo è anche quello di creare delle storie sui loro percorsi. E’ una cosa affascinante. Ci sono dubbi, alti e bassi, successi e sconfitte. Ci sono rapporti reali con persone reali. Quindi, per rispondere direttamente alla tua domanda: sì, stiamo sviluppando delle storie forti, delle “storie vere”.]]>