Tom LaForge

E’ un fatto sconvolgente: il 73{f94e4705dd4b92c5eea9efac2f517841c0e94ef186bd3a34efec40b3a1787622} dei brand potrebbe scomparire e ai consumatori non importerebbe nulla. Come siamo arrivati a questa situazione, illustrata nell’indagine di Havas Media, 2013 Meaningful Brands?

Pare che vi siano due ragioni: una basata su quello che hanno fatto i responsabili marketing, una su quello che non hanno fatto.
Negli ultimi 30 anni essi hanno fatto grandi progressi nell’abbassamento dei costi e nel miglioramento della qualità. Hanno ottimizzato le proprie filiere e computerizzato e automatizzato ogni fase che era possibile automatizzare. Quindi hanno sottoposto tutto quanto ai programmi Six Sigma, in modo che, anno dopo anno, i costi si riducevano mentre la qualità continuava ad aumentare.

Oggi, la maggior parte dei settori è composta da molteplici prodotti, ottimamente fabbricati e offerti a prezzi concorrenziali. Man mano che i ricercatori di mercato identificavano le caratteristiche più desiderabili, i brand vi si convergevano.
Altri produttori impararono che era possibile evitare i costi delle ricerche di mercato copiando, compatibilmente con i limiti imposti dalla legge, i migliori prodotti dei concorrenti. Come osserva Youngme Moon in un’analisi approfondita di tale processo: “più competono, più si assomigliano. … i [prodotti] stanno collassando gli uni dentro gli altri“.

Ed ecco quello che la maggior parte dei brand non ha fatto. Sono stati restii ad aggiungere qualsiasi cosa che, in termini quantitativi, non si potesse dimostrare essere un “motore della propensione ad acquistare“. Come si fa ad identificare tali motori? Con “dati nudi e crudi” che indicano un aumento “significativo” della disponibilità a pagare.
Poichè le tecniche quantitative avevano ottimizzato in modo così efficiente le macchine, le fabbriche e i prodotti (tutta la parte fisica, in altre parole), sembrava evidente che questa fosse la strada migliore e più scientifica per decidere come creare e come modificare i prodotti. Della serie “estrapola i numeri e, se questi sono significativi, prendi la tua decisione”.

Una conseguenza inaspettata dell’affidarsi ai dati quantitativi fu la tendenza a dare la priorità alla funzionalità, poiché gli attributi funzionali tendono a primeggiare in questo processo altamente razionale. In questo modo, anno dopo anno, le variazioni di funzionalità tendevano a ridursi nella maggiore parte delle categorie, e quindi la capacità di differenziazione dei brand cominciò a diminuire.
Diventò sempre più difficile fidelizzare i consumatori e mantenere le quote di mercato. Per affrontare il problema, la battaglia si estese dal terreno delle caratteristiche funzionali a quello delle caratteristiche emozionali. Della serie “compra questo prodotto per essere una brava mamma, un tipo cool, uno che conta…!“.

In questo modo aumentò il potere di richiamo dei prodotti, ma con il risultato che oggi ci troviamo con tre problemi ormai endemici: il numero di posizionamenti emozionali per una data categoria di prodotti è limitato; i ricercatori di mercato aiutano i responsabili marketing a identificare e a farsi largo in pochi specifici posizionamenti; con la proliferazione della pubblicità emozionale i consumatori si abituano a spostarsi da un posizionamento emozionale a un altro. (Tutti noi vogliamo uno spettro ampio di emozioni, nessuno si ferma a una sola).

Le similarità funzionali dei prodotti e gli sforzi di posizionamento emozionale dei responsabili marketing intenti a rubarsi quote di mercato hanno fatto sì che oggi i consumatori siano più che mai disposti a cambiare brand all’interno di una data categoria.
Il potere degli elementi funzionali ed emotivi si è eroso al punto tale che la fedeltà sta scomparendo. Questa è la situazione creata dai responsabili marketing come conseguenza, non voluta, del miglioramento continuo della qualità, della dipendenza dalle tecniche quantitative e dell’individuazione della gamma ristretta di posizionamenti emozionali in ogni categoria. Incredibilmente, grazie alla ricerca di una qualità e di un posizionamento di brand sempre migliori, i responsabili marketing hanno creato un ambiente in cui poco importerebbe ai consumatori se la maggior parte dei brand scomparisse.

Ma un’altra conseguenza inaspettata di questa triste situazione è l’attuale rivoluzione nel marketing. Intenti a recuperare quote di mercato e a fidelizzare i clienti, i responsabili marketing stanno guardando oltre gli elementi funzionali ed emozionali, per orientarsi a quelli sociali.

A differenza delle caratteristiche funzionali, quelle sociali non raccontano il prodotto. Né – a differenza degli elementi emozionali – riguardano il mood del consumatore quando usa il prodotto. Gli attributi sociali riguardano i rapporti e di rapporti ce ne sono di tutti i tipi – alcuni belli, altri brutti. Quando il rapporto è bello (di reciproco beneficio, non inteso a sfruttare, volontario), è bello sempre e ovunque. Quando è brutto (di beneficio di una sola delle parti, coercitivo, selettivo, manipolativo), è brutto sempre e ovunque. Ed è proprio in ragione di questa universalità e di questa coerenza che un numero crescente di responsabili marketing e produttori sta applicando strati di socialità ai prodotti esistenti o utilizzando tali attributi come la base dei prodotti nuovi.

Gli attributi sociali stanno spingendo un numero sempre maggiore di imprese a stipulare alleanze con Ong ed enti governativi, a creare modelli di business basati sulla condivisione, a costituire benefit corporation, a nominare un esercito in continua espansione di direttori per la responsabilità sociale all’interno delle aziende.
Quando una persona compra un prodotto per le sue caratteristiche sociali, l’acquisto equivale a una dichiarazione della propria percezione di un rapporto buono. Sono dichiarazioni basate sui valori. E i valori costituiscono solide fondamenta sulle quali poggiare, per moltissimo tempo, la lealtà di brand.

Gli attributi sociali fanno dichiarazioni del tipo:

• le modalità di fabbricazione dei prodotti dovrebbero curare il rapporto tra l’uomo e il pianeta;
• i territori dovrebbero prosperare insieme alle imprese attive al loro interno;
• le imprese dovrebbero trattare i dipendenti in modo giusto, presidiandone la sicurezza e pagandoli bene ovunque risiedono;
• una società giusta è una società dove prosperano le imprese che contribuiscano a migliorare il benessere della società civile, mentre quelle che non vi contribuiscono perdono la licenza sociale ad operare;
• le corporation devono curare e agire a favore del benessere degli altri, non solo dei propri.

Viste da sole, queste dichiarazioni sono troppo generiche per costituire strumenti efficaci di marketing. Ma rapportate a un paio di scarpe, a un detersivo, a un dentifricio o a una bevanda utilizzata ogni giorno dal consumatore, fanno uscire il prodotto dal mare della vaghezza in cui il fattore principale di differenziazione è il prezzo, e lo portano in un posto dove il significato e i valori fanno diminuire il potere differenziatore del prezzo.

In questo posto, la decisione di acquisto pare più soddisfacente, più finalizzata. Qui, la fedeltà riprende un po’ della propria forza perché è una fedeltà diversa – non è fedeltà a un brand, ma piuttosto la solidarietà che si sente con chi si dedica allo stesso nostro scopo. Prospereranno i brand che condividono la nostra dedizione a una causa maggiore di noi e forniscono un meccanismo per un’azione collettiva.
Quando condividiamo una dedizione a rapporti societari basati su principi morali, la fedeltà – quella qualità elusiva ricercata da tutti i responsabili marketing – ne consegue naturalmente.

In tutto questo, vi è una lezione di marketing importante ma apparentemente contro-intuitiva – una lezione non facile da cogliere. Il concetto fu espresso bene da Viktor Frankl quando disse: “Non mirate al successo. Perché il successo, come la felicità, non si può cercare; deve derivare, e lo fa solo come l’effetto collaterale inaspettato della dedizione personale a una causa più grande di noi stessi“.

Mi sia consentito di sintetizzare le parole di questo grande uomo: i responsabili marketing potranno raggiungere il successo solo dopo avere compiuto la seguente svolta contro-intuitiva nel propria visione di causa ed effetto: da “persegui i profitti e ne risulteranno benefici societari” a “persegui benefici societari e ne risulteranno i profitti”.

Se il vostro capo non è convinto, fa lo stesso. Egli potrà consolarsi con il fatto che il suo scetticismo è probabilmente condiviso da circa il 73{f94e4705dd4b92c5eea9efac2f517841c0e94ef186bd3a34efec40b3a1787622} di tutti i responsabili di brand.

http://www.theguardian.com/sustainable-business/social-impact-brand