Uno sguardo sulla facilitazione
Uno strumento potente per aiutare i gruppi a lavorare bene insieme verso un obiettivo comune.
Se ne parla sempre più spesso, sempre più persone ne fanno esperienza, ma è ancora difficile – anche per chi se ne occupa – spiegare di cosa si tratti. Cos’è in pratica la facilitazione? A cosa serve?
Immaginate un gruppo di persone. Potrebbe essere un gruppo molto numeroso o molto ristretto: gli abitanti di una città, la gente di di un quartiere, i membri di una comunità, i volontari di un’associazione, i ragazzi di una scuola, persone che formano una squadra, un team aziendale. Questo nostro gruppo ha un intento comune, che sia risolvere un problema, prendere una decisione, trovare idee, seguire un progetto, creare qualcosa di nuovo, o anche semplicemente dialogare su un argomento.
Qui entra in campo la facilitazione, che appunto ha il compito di rendere più “facile” il suo percorso verso l’obiettivo. In che modo?
Da dove si parte?
Innanzitutto, aiutando le persone a comunicare in modo efficace, dove efficace non significa “in grado di far prevalere un’idea sull’altra”. Nel nostro caso vuol dire sapersi abituare all’ascolto, al prendere e dare spazio, al fermarsi a riflettere sui bisogni reali propri e altrui, a fare uso di quel mezzo potentissimo che sono le domande.
La facilitazione aiuta poi a evitare i conflitti, perché insegna a separare le persone dai problemi, a sospendere il giudizio, a riconoscersi nell’altro. Aiuta a migliorare la collaborazione e la motivazione facendo leva su scambio, fiducia e responsabilità. Aiuta a sviluppare il pensiero creativo e, se può, è allegra e lo fa giocando.
È per queste ragioni che, ad alcuni, la facilitazione sembra andare controcorrente: favorisce l’apertura in un tempo di polarizzazioni e di posizioni nette, chiuse.
Chi gestisce la facilitazione?
La facilitatrice e il facilitatore hanno un ruolo particolare. Anche se cambiano spesso contesto, non serve che conoscano tutti gli argomenti. Questo perché non sono mai chiamati a esprimere il loro parere: non entrano nel merito delle questioni, si pongono in una posizione neutrale rispetto ai contenuti. D’altra parte, il loro compito è prendersi cura del gruppo, del clima e del dialogo, farsi registi delle interazioni e garantire coinvolgimento. Nel facilitare camminano dunque in equilibrio fra questi due fattori, cura e neutralità, bilanciando i momenti in cui guidare il gruppo con quelli in cui dal gruppo bisogna farsi guidare.
La cassetta degli attrezzi di chi fa facilitazione
Dal momento poi che situazioni, condizioni e obiettivi possono variare moltissimo da un caso all’altro, facilitatrice e facilitatore si portano dietro una cassetta degli attrezzi piena di tecniche e metodi.
Quando le persone chiamate per un processo partecipativo sono potenzialmente moltissime e si vuole arrivare a una emersione condivisa di idee, si utilizzano soprattutto tecniche di facilitazione che si basano sull’energia collaborativa generata dalle conversazioni informali, sulla capacità di auto-organizzazione e sullo scambio – il più diffuso possibile! – di spunti e punti di vista fra i partecipanti. Capofila di questa area sono metodologie come World Cafè e Open Space Technology.
Se il gruppo è più ristretto e con obiettivi specifici, a disposizione dei facilitatori c’è una miriade di possibilità: dall’uso dello spazio e del movimento a quello del gioco, della musica, dell’arte, della fotografia, dei mattoncini Lego. Si tratti di modalità per facilitare l’emersione di opinioni non immediate e non scontate (quelle a cui ci si fermerebbe, per intenderci, di fronte a una domanda diretta). L’uso di modelli e metafore ci porta ad abbandonare preconcetti e stereotipi e a favorire l’esplorazione del nuovo e dell’insolito, evitandoci di rimanere ancorati a problemi ormai noti e a soluzioni già esplorate.
Al termine dei lavori, se i facilitatori avranno svolto bene il proprio compito, le persone saranno soddisfatte di aver collaborato in modo piacevole e di aver raggiunto più agevolmente del previsto i loro intenti. D’altra parte, non sarà affatto facile per loro tornare a riunioni tradizionali o a modalità oppositive: è quello che spesso accade dopo un cambio di paradigma.
Francesca Schirillo, facilitatrice esperta